Viva il primo maggio
Giornata di lotta e di festa
Carmine Valente pdf

Il primo maggio, come molte altre ricorrenze, ha in parte perso il legame con i fatti e gli eventi che lo hanno determinato. Ma come avviene per altri giorni di festa anche il 1° maggio è vissuto con profonda partecipazione diventando di fatto un momento di convivialità e di ricostruzione, sia pur momentanea, di comunità.
Così anche il primo maggio non scivola via come un giorno qualsiasi.
Per molti, ieri come oggi, il primo maggio rimane una giornata di lotta .
Giorno in cui nel mondo le lavoratrici e i lavoratori fanno ancora una volta sentire la propria voce contro lo sfruttamento e l'annichilimento della libertà, che sotto veste diversa ancora rappresenta i caratteri delle odierne società.
Ma il primo maggio è anche giorno di festa, festa perché nessuno ci ha regalato questa giornata, né regnanti, né governi, né parlamenti.
Festa perché è il giorno in cui il proletariato internazionale si riconosce come comunità solidale, in cui riconosce di avere interessi comuni. Festa perché i valori della libertà, della uguaglianza e della solidarietà sono valori positivi, valori inclusivi e quindi valori di gioia.
Questa comunità solidale è aperta a tutti, non crea barriere, non ha pregiudizi di razza e di religione, al suo interno tutti si possono riconoscere purché si abbandonino i privilegi e si abbracci la causa della libertà e dell'uguaglianza.
Questi valori che sono i valori fondativi dell'anarchismo furono quelli che propagandarono con tenacia e passione quei militanti sindacali di orientamento anarchico, animatori del movimento per la giornata delle otto ore.
E fu proprio il consenso vasto che si determinò intorno a questi agitatori sociali a Chicago, città in cui si sviluppò il movimento, che li portò sul patibolo.
Noi vogliamo ricordare uno di questi uomini, Albert Parson che come gli altri condannati a morte, scrisse una propria autobiografia per la rivista dei “knights of Labor” (Cavalieri del lavoro).
La vita di Albert, attraverso il suo racconto, è un piccolo gioiello che ci mostra come materialisticamete procede la sua presa di coscienza della realtà che lo circonda. Ancora adolescente, all'età di 13 anni lo troviamo combattente per gli Stati confederali del Sud, fino, attraverso il sentiero della vita, ad essere un brillante oratore ed agitatore politico e sindacale nelle file dell'anarchismo. Albert è l'unico nativo americano fra i condannati per i fatti di Haymarket a Chicago, gli altri erano immigrati tedeschi. Ciò influì non poco sulle sorti del processo. Come in altri momenti storici, e il pensiero non può non andare ai nostri Sacco e Vanzetti, l'odio di classe dei capitalisti si alimentò e fuse con profondi sentimenti sciovinisti.
È questa storia, per la prima volta in italiano, che abbiamo pubblicato e che dedichiamo a tutte quelle compagne e a tutti quei compagni che si battono per una prospettiva di cambiamento della società in cui l'uguaglianza si coniughi con la libertà.
Per richieste : ilcantiere@autistici.org contributo stampa e spedizione €8,00
Il tempo è arrivato, libertà per Ocalan!
Pace in Kurdistan!
Manifestazione nazionale a Roma
11 Febbraio 2023 in piazza Esquilino a Roma ↑
Alternativa Libertaria/FdCA comunica con la presente l'adesione alla manifestazione nazionale, in programma l’11 Febbraio 2023 in piazza Esquilino a Roma, per chiedere la liberazione di Abdullah Ocalan e l'avvio di un processo di pace in tutta la regione mediorientale, in modo da garantire il diritto all'autodeterminazione del popolo curdo e degli altri popoli della regione e il prosieguo del fecondo esperimento del Confederalismo Democratico.
Allo stesso tempo esprimiamo la nostra più forte vicinanza e solidarietà alla popolazione colpita dal devastante terremoto che ha sconvolto la regione nella giornata odierna e il nostro più sentito cordoglio per le vittime.
Abbiamo già provveduto a diffondere in tutte le istanze della nostra organizzazione e all'interno dei suoi ambiti di intervento l'appello urgente alla solidarietà lanciato dal Congresso Nazionale del Kurdistan.
I nostri migliori saluti,
Alternativa Libertaria/FdCA
PROIETTILI LIVORNESI SPARATI SUI MANIFESTANTI IN IRAN! BASTA INVIO D'ARMI ALLA TEOCRAZIA IRANIANA E AI REGIMI AUTORITARI E MILITARISTI! SOLIDARIETÀ CON CHI SI RIVOLTA IN IRAN! STOP AL COMMERCIO DI ARMAMENTI! LIVORNO SIA CITTÀ DI PACE, NON COMPLICE DI TEOCRAZIE E IMPERIALISMI
PRESIDIO DI FRONTE ALLA CHEDDITE GIOVEDÌ 15 DICEMBRE H12
È notizia di qualche giorno fa: la polizia in Iran spara sui manifestanti con proiettili prodotti qui. Nella capitale dell’Iran, a Teheran, e in molte delle principali città, sono state rinvenute, dopo che la polizia era intervenuta sparando con i fucili sui manifestanti, cartucce recanti il marchio 12*12*12*12* utilizzato solo dall’azienda Cheddite. La Cheddite è un'azienda italofrancese con sede a Livorno che produce cartucce per armi leggere. Non è la prima volta che le cartucce Cheddite sono utilizzate nelle strade sui manifestanti, ne era già stato denunciato il diffuso impiego l'anno scorso da parte del regime militare birmano. Dal 2014 risulta registrata al Registro del Ministero della Difesa per le imprese esportatrici di armamenti ai sensi della Legge 185/90. In quanto produttrice di proiettili leggeri e da caccia le esportazioni della Cheddite possono essere sottoposte a controlli meno rigorosi rispetto alle armi da guerra, in base alla legge 110/75. Tuttavia la vendita di armi anche leggere all’Iran è illegale dal momento che già dal 2011 il paese è sottoposto all'embargo totale della vendita di ogni tipo di arma utilizzabile per la repressione delle proteste di piazza. L'ipotesi più probabile è che queste armi siano state vendute all'impresa turca Zsr Patlayici Sanayi A.S. e che in seguito questa abbia "triangolato" verso l'Iran. Un passaggio simile pare essersi verificato già nel 2021 verso la Birmania. Dal 2011 l'Italia ha esportato 85,8 milioni di euro di cartucce alla Turchia, che a sua volta nello stesso periodo ha esportato 7,06 milioni di euro di cartucce all'Iran. (Fonte: Domani del 30 novembre 2022). Siamo pienamente solidali con la rivolta in Iran contro il Governo religioso di Raisi. È il protagonismo delle classi sfruttate e oppresse, dei giovani, delle donne, che sta aprendo percorsi di liberazione e possibilità rivoluzionarie nella regione, mentre le sanzioni del Governo USA hanno contribuito a fortificare la parte più reazionaria della società e della politica iraniana, colpendo le classi popolari e le fasce più fragili della popolazione. Vogliamo chiarezza su questa vendita di armi, punta dell'iceberg di un export di armi diretto verso fulgide democrazie come l'Egitto, la Turchia o l'Arabia Saudita, che è proseguito senza variazioni sensibili tanto durante i Governi Conte, quanto durante il Governo Draghi e l'attuale Governo Meloni. L'impunità di cui gode la lobby degli armaioli italiani è arrivata al punto tale che Guido Crosetto, ex presidente dell'Aiad, la Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza affiliata a Confindustria, è ora Ministro della Difesa del Governo Meloni. I governi Draghi e Meloni e i partiti che li hanno sostenuti hanno fatto carta straccia della legge 185/90 che vieta la vendita e la cessione di armi a paesi in guerra inviando ingenti rifornimenti di armamenti all’Ucraina. La città di Livorno, dove oltre alla Cheddite ha sede la Leonardo-Finmeccanica, importante porto di transito internazionale, a due passi dalla base militare americana di Camp Darby, non vuole essere un luogo di produzione e transito di strumenti di morte e repressione. PRETENDIAMO L'IMMEDIATO STOP DELLE ESPORTAZIONI DELLA CHEDDITE VERSO LA TURCHIA STOP ALL’ESPORTAZIONE DI ARMI VERSO LA TURCHIA E GLI ALTRI PAESI AUTORITARI E/O IN GUERRA, COME PREVISTO DALLA LEGGE 185/90 NON VOGLIAMO ESSERE COMPLICI DI GUERRA E REPRESSIONE! COSTRUIAMO PACE, DISARMO E SOLIDARIETÀ!
COORDINAMENTO LIVORNESE PER IL RITIRO DELLE MISSIONI MILITARI
Livorno Dicembre 2022
ELEZIONI POLITICHE 2022 ↑
L’Iran senza veli
Francisco Soriano
È il giorno 13 del mese di settembre quando, la ventiduenne Mahsa Amini, viene intercettata e sequestrata da una squadraccia di poliziotti dediti all’individuazione di persone che mostrano comportamenti immorali e contrari all’etica sciita: di questa composita formazione di “squadristi della buon costume” ne fanno parte anche donne, in abiti borghesi, molto attive anche all’interno di mezzi pubblici e metropolitane.
Mahsa Amini è di origini curde ed è in viaggio per turismo a Teheran.
È una delle tante giovani iraniane a ritrovarsi vessata e sequestrata, soprattutto, nelle strade dei grandi centri urbani, con appositi furgoni muniti di grandi sportelloni esterni, utili a caricare le vittime senza troppi “sprechi di energie”. Se queste ultime si mostrano recalcitranti, il metodo più consolidato di arresto resta la bastonatura che si protrae, nella maggior parte dei casi, anche per diversi giorni all’interno di specifici luoghi di detenzione, con umiliazioni e pressioni psicologiche che ledono i più elementari diritti umani delle persone. Molto spesso, in Iran, vengono concessi brevi periodi di “libertà”: le donne hanno la sensazione di poter finalmente decidere di indossare o meno l’hijab e di utilizzare il maquillage, sul proprio volto e sulle mani. Questi periodi, tuttavia, vengono sistematicamente interrotti con restrizioni e limitazioni che gettano le persone in una condizione di criticità psicologica e frustrazione. Sono soprattutto le generazioni più giovani, la maggioranza delle quali insofferenti nel seguire il rigido codice islamico-sciita, a pagare il prezzo più alto.
Questa volta, però, la giovane Mahsa non ha retto alle umiliazioni e alle manganellate della polizia in carcere: è morta dopo essersi accasciata al suolo, visibile in un video contraffatto e mostrato dalle autorità di polizia che hanno cercato, senza riuscirvi, di celare l’immane colpa di aver ucciso una persona inerme per “futili motivi”. La polizia iraniana si è mostrata subito preoccupata dalle conseguenze di questo orrendo crimine, affermando che Mahsa sarebbe stata colpita da infarto. Fonti giornalistiche iraniane sostengono, inoltre, che le autorità abbiano rimosso il capo della polizia di Teheran, Ahmed Mirzaee, per il momento soltanto con la sospensione dall’incarico. Il presidente iraniano Ebrahim Raissi, invece, ha chiesto al Ministero degli Interni di avviare un’indagine sul decesso della giovane nella speranza di spegnere le prime avvisaglie di rivolta all’interno delle metropoli iraniane. Tuttavia, il gesto ha innescato una fiamma deflagrante ancora più violenta e incontrollata di quanto si potesse immaginare. A peggiorare la situazione ha contribuito la dichiarazione dell’ospedale “Kasra” della capitale, apparsa sui social media della struttura sanitaria, in cui si affermava che “Mahsa Amini era giunta il giorno 13 già senza alcun segno vitale”. I fondamentalisti islamici ben distribuiti in gruppi militari e paramilitari, come ad esempio i famigerati bastonatori “irregolari” conosciuti come “baseji”, hanno minacciato e oscurato gli account dell’ospedale accusando i funzionari ospedalieri di essere “agenti anti-regime prezzolati da potenze straniere”. Una retorica abbastanza consolidata in Iran, che intende nascondere una verità inconfutabile: l’assenza di considerazione per i diritti umani e i diritti delle donne, che nulla hanno a che fare con i tentativi delle potenze straniere di sobillare il regime islamico. Inoltre, le responsabilità storiche degli USA e della Gran Bretagna, con illegittime ingerenze nelle politiche di questo Paese, non possono giustificare l’esistenza di questo sistema di governo corrotto e violento, che si fonda su valori regressivi in tema di democrazia e valori fondanti i diritti umani e di genere.
L’introduzione della copertura islamica avvenne subito dopo la rivoluzione del 1979 e la “presa del potere” dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Quest’ultimo con perizia e intelligenza strategica, riuscì a inglobare una rivolta popolare con diverse sfaccettature e istanze ideologiche, in una dimensione islamico-sciita, facendo eliminare fisicamente avversari politici e oppositori, con spietata ferocia e senza esclusione di colpi. L’attuale presidente della cosiddetta repubblica islamica, Ebraihim Raissi, fu uno degli artefici dell’uccisione di migliaia di persone, sequestrate, torturate e giustiziate nel periodo post-rivoluzionario. Al potere dal giugno del 2021, dopo aver occupato le massime cariche nella magistratura iraniana da quando aveva 19 anni, Raissi è riconosciuto come responsabile di “crimini contro l’umanità”: un’accusa condivisa e suggellata a livello internazionale anche da Stati “non ostili” all’Iran. Nell’estate del 1988 fu uno dei quattro membri di una commissione che ordinò e fece eseguire la tortura e l’uccisione di circa 30.000 membri di formazioni politiche, anche islamiche, per tradimento e opposizione al regime khomeinista. È stato protagonista, inoltre, della repressione di studenti e oppositori nelle varie rivolte scoppiate a fasi alterne in Iran. Fra le più sanguinose ricordiamo quella nel 2009 (alla quale ho assistito come testimone e vittima di tortura) durante l’elezione contestata di Mahmud Ahmadinejad e, successivamente, nel 2019 per motivi legati alla corruzione e al dissesto economico del Paese.
In questi anni le donne iraniane, molto attive nella vita civile del Paese, intelligenti e creative nei vari ruoli sociali, hanno spesso dimostrato la loro contrarietà alla mancanza di libertà nell’indossare o meno la copertura islamica ma, soprattutto, una totale insofferenza verso una legislazione che le vede inferiori agli uomini, nel diritto di famiglia e nel processo penale. La modestia e pietà religiosa, la serietà e la fedeltà al proprio marito e padre, non sono valori riconducibili alle donne di nuova generazione che, invece, intravedono in questi dettami solo quello che veramente rappresentano: una costrizione maschile, paternalistica, patriarcale e di dominazione machista, attraverso il velo.
In realtà, in questo meraviglioso Paese, avvocate, scrittrici, politiche e femministe, non si arrendono ai soprusi e lottano ogni giorno per conquistare nuovi diritti. Analisti nostrani mostrano una certa superficialità nella considerazione che una parte consistente della società civile rivendichi ogni giorno spazi di libertà in un Paese con un regime di polizia sanguinario e brutale. La tragedia che ha colpito Mahsa Amini smentisce una retorica inconsistente, intrapresa da molti cronisti occidentali di ritorno dall’Iran, che definiscono entusiasmanti i progressi sociali e politici raggiunti in ogni settore del Paese. Nel quotidiano, nelle dinamiche “reali”, ci troviamo invece di fronte a una legislazione assolutamente discriminatoria nei confronti delle donne. In un contesto molto precario circa il rispetto dei diritti umani, dove le istituzioni appaiono sempre molto aggressive e puntuali nel processare, incarcerare e torturare gli oppositori politici, le donne risultano essere schiacciate nella rivendicazione delle proprie aspirazioni in modo sistematico. Gli “analisti politici” pongono spesso, in primo piano, l’esistenza di un sistema di norme costituzionali che rappresenterebbe, non solo nella forma, bensì anche nei contenuti, meccanismi “tutto sommato” democratici. Considerazioni risibili, anche soltanto nella constatazione delle copiose violazioni delle libertà di espressione e sistematiche sospensioni delle più elementari prerogative dei diritti umani.
Dunque, l’insostenibile piano, in merito alle affermazioni nel senso di un sistema basato su “valori democratici” in Iran, verrebbe presto a verificarsi inclinato, laddove si deduce che il sistema costituzionale iraniano è inesorabilmente cristallizzato dal Velayati faghi, cioè il diritto di veto e di cassazione che la Guida Suprema può esercitare nei confronti di tutte le leggi, i regolamenti, le ordinanze e qualsiasi atto amministrativo che intacchi la monoliticità del sistema teocratico fondato sulla religione musulmana sciita duodecimana. L’Iran, nella realtà e senza dissertazioni mendaci, è un paese con un sistema istituzionale bloccato, fortemente autoritario, con una spiccata tendenza a diventare uno stato di polizia, autocratico, che riconosce la tortura come sistema di repressione e stabilizzazione sociale.
Le donne iraniane hanno capacità imprenditoriale, sono studentesse modello: anche dal punto di vista numerico le iscritte nelle varie facoltà universitarie sovrastano di gran lunga gli uomini (per questo si è discusso molto spesso della necessità di quote azzurre); ricoprono ruoli di rango nella pubblica amministrazione, posti dirigenziali in piccoli settori della moda e del design, sono architette, ingegneri, professioniste in tutti i settori del mondo commerciale ed economico. Inoltre, possono diventare ministre (anche se tutte tassativamente di area o derivazione religiosa e conservatrice, altrimenti sarebbero escluse anche dal “listone unico” riservato alle candidate durante le elezioni da una apposita commissione che verifica la loro morale); molte donne, tuttavia, sono state costrette per le loro attività a lasciare il Paese. Fra le più importanti, si ricorderà il Premio Nobel, Shirin Ebadi. Emblematico in patria, invece, il caso di Nasrin Sotoudeh, l’avvocata propugnatrice dei diritti umani e contro la pena di morte, soprattutto nei confronti dei minorenni, ha oggi maggiore risalto, perché vittima di una ingiustizia senza fine. In carcere, vessata senza sosta e privata di ogni possibilità di comunicare con la propria famiglia, l’avvocata lotta contro le norme discriminatorie sull’obbligo del velo: il 13 giugno del 2018 è stata arrestata e condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate, pena confermata in appello. Tra il 2010 e il 2013 Nasrin aveva già trascorso tre anni in prigione perché colpevole di azioni contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il regime: è stata interdetta dal rappresentare casi politici o lasciare l’Iran fino al dicembre 2022. La somma degli anni di condanna e delle pene è così riassunta: 7 anni e sei mesi per l’intenzione di commettere un crimine contro la sicurezza nazionale; 1 anno e sei mesi per propaganda contro il sistema delle leggi islamico-sciite; 7 anni e sei mesi per aver preso parte ad un gruppo illegale; 12 anni per deviazione morale e istigazione alla prostituzione; 2 anni per la violazione dell’ordine pubblico; 3 anni e 74 frustate per aver pubblicato falsità e aver disturbato il sistema pubblico; 74 frustate per essere apparsa senza velo in presenza del Pubblico Ministero; inoltre, vi sono altri 5 anni per un precedente verdetto in base a un pregresso reato. Infine, Nassrin Sotoudeh ha difeso giornalisti e attivisti, tra cui la stessa Shirin Ebadi, insieme a diversi dissidenti arrestati durante le proteste di massa nel 2009 contro la contestata rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Nasrin era stata arrestata più volte anche per essersi permessa di difendere il diritto delle donne alla libertà nell’abbigliamento, prendendo le difese delle cosiddette “Ragazze di Engelab Street”, che si erano provocatoriamente tolto il velo in pubblica piazza. In prigione, l’avvocata ha sostenuto due scioperi della fame per protesta contro le durissime condizioni carcerarie di Evin, il famigerato carcere di Teheran dove vengono ospitati moltissimi prigionieri politici, a cui viene riservata la pratica della tortura, psicologica e fisica. All’avvocata Sotoudeh è stato inoltre vietato di vedere i suoi figli. La condanna è già stata confermata in appello. Non è stata diversa la sorte di Narges Mohammadi, avvocata e difensora dei diritti umani, contro la pena di morte nonché vicepresidente del Centro per i difensori dei diritti umani in Iran. Arrestata nel maggio del 2015 e incarcerata a Evin, è stata condannata a 10 anni con l’accusa di aver costituito un gruppo illegale. Inoltre, tanto per intimidire chiunque avesse l’idea di opporsi al regime degli ayatollah, Narges Mohammadi ha anche ricevuto una condanna a cinque anni per aver commesso crimini contro la sicurezza nazionale e per la diffusione di propaganda contro il sistema islamico-sciita. La salute di Narges Mohammadi è seriamente compromessa dai periodi di detenzione e dalle sistematiche pratiche di tortura.
L’hijab non è un semplice tessuto. Le manifestazioni e gli scontri con diversi morti, arresti e persone scomparse provano la gravità della situazione. La polizia fra le più violente del mondo, supportata da gruppi paramilitari e formazioni di picchiatori senza scrupoli ha usato proiettili veri, uccidendo già una decina di giovani nelle città del kurdistan iraniano: in particolare, nei centri di Divandareh, Dehglan e Saquez. Ufficialmente, nelle province curde, più di 220 persone sono state ferite e 250 sono state arrestate sin dall’inizio delle proteste. Tuttavia, non è possibile avere una cifra precisa delle vittime in questi frangenti perché le comunicazioni internet, dal giovedì 15 settembre, sono state interrotte per motivi di sicurezza interna. Le restrizioni non hanno fermato la pubblicizzazione delle proteste e delle cruente rappresaglie della polizia nelle strade delle città, dove si percepiscono gli spari da arma da fuoco e si vedono gli incendi che vengono appiccati agli incroci delle strade. Molte giovani iraniane bruciano i loro veli e tagliano i capelli in pubblico in gesto di protesta nei confronti del potere religioso degli ayatollah. Un gesto forte, traumatico e senza precedenti nella storia di questo Paese dove, per la prima volta, al fianco delle donne in prima fila, sfilano e solidarizzano anche giovani di sesso maschile. Una svolta e un afflato di libertà che lasciano sperare in un futuro più libero e solidale di questo popolo offeso e umiliato da anni di violenze e sottomissione autoritaria. Pochi mesi fa, le attiviste per i diritti Lgbt+, Zahra Sedighi Hamedani di 31 anni ed Elham Chubar di 24, sono state condannate a morte dal tribunale di Urmia per “corruzione sulla terra”: un grave reato previsto dal codice penale. Per Amnesty International il verdetto si basa su ragioni discriminatorie legate all’orientamento sessuale delle due donne e al credo religioso cristiano. Nel caso di Zahra ha pesato anche il suo pacifico attivismo per i diritti Lgbt+ e la “propaganda” che aveva tentato di sostenere nel suo Paese. Nel 2021 Zahra era apparsa in un documentario sulle persecuzioni nel Kurdistan iracheno a discapito delle persone con diverso orientamento sessuale, girato dalla Bbc. All’inizio dell’anno, i servizi di sicurezza avevano fatto irruzione nelle abitazioni di Firouzeh Khosrawani e Mina Keshavarz, due giovani registe e attrici che avevano subito pene restrittive senza motivi e reati a loro addebitabili. Un’azione di intimidazione nei confronti di due intellettuali, donne, molto conosciute anche in Italia per i loro docufilm dai contenuti sociali scottanti e di denuncia delle ingiustizie perpetrate nel proprio Paese.
Ombre funeste si addensano su questo Paese culla di una civiltà offesa, umiliata e tradita da una schiera di grigi prelati senza alcuna sensibilità per le libertà, i diritti umani e la cultura profondissima e millenaria di un popolo. In nessun Paese del mondo la lotta per la libertà delle donne è così eroicamente sostenuta e sublimata da atti di coraggio senza precedenti. Gli ayatollah temono concretamente il potere femminile di cambiare il destino della propria storia: le donne sono le uniche capaci di interpretare contraddizioni e crisi endemiche della propria società.
Il futuro iraniano è donna. Non ci sarà per loro un solo secondo di tregua, finché rimarrà in vita una sola donna iraniana a calpestare l’ingiustizia e la violenza dei loro turbanti.
(immagine presa da Asianews)
Non è tempo di illusioni
Il lavoro da fare è un altro, unire la nostra classe su obiettivi concreti di difesa delle proprie condizioni di vita, per sostenerla e orientarla nel lento processo della sua emancipazione.
Alternativa Libertaria/FdCA ↑ ↑
da "il CANTIERE" anno 2, n. 10 settembre 2022
Analizzando con attenzione e pazienza quello che è “il teatrino” della politica italiana, sorge alla mente quanto andava affermando Karl Marx nel 1852, che citiamo anche a costo di apparire ripetitivi: “E dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il continente, il “cretinismo parlamentare”, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore”.
Per completezza e pertinenza con la vicenda politica nazionale aggiungiamo anche quanto Marx andava scrivendo sempre nel 1852: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”.
Continuiamo a ripetere, per chi ritenesse riduttive queste considerazioni, che analizzando le caratteristiche anche soggettive dell’attuale quadro politico, ci troviamo di fronte alla sua estrema povertà nonostante tutta la sua ridondanza: alleanze variegate, rumorose e improbabili replicate a profusione, talvolta caratterizzate da rissosità estreme che, unitamente a diffusissime ambizioni personali, ne inficiano la credibilità; campagne elettorali dove si annunciano maggioranze probabili e comunque sopravvalutatissime come le minoranze d’altronde, nella cornice di prognostici che dovrebbero “ fare la storia”, ma che aprono le porte a una diffusa e interessata supponenza, nella quale vi è spazio per ogni dissertazione propagandistica e velleitaria, rivolta alle classi e agli strati sociali di riferimento per ingraziarsene i consensi.
“Le urne chiamano”: i mezzi di comunicazione amplificano proclami che artatamente divaricano le divergenze e gli antagonismi tra le forze politiche maggiormente rappresentative quando, invece, tutte queste si collocano nell’articolato contesto degli schieramenti della classe dominante e nelle sue contraddittorie configurazioni sociali, politiche e istituzionali, che vedono ampliare in Italia il conflitto tra grande e piccolo capitale e tra piccola e grande borghesia, che non riesce a darsi una rappresentanza politica solida nel quadro dell’acuirsi della competizione imperialistica tra potenze per il controllo del mercato mondiale in uno scenario di crisi generalizzata che, con il conflitto in Ucraina, ha esportato la guerra anche in Europa, schiacciando l’Unione Europea in un’univoca subalternità all’imperialismo USA, con tutte le conseguenze del caso.
C’è poi da considerare che il fiorente replicarsi di queste dinamiche ha contagiato, di elezione in elezione, interi strati della nostra classe per cui, vaste aree militanti allo scoccare di ogni nuova scadenza elettorale subiscono “il richiamo della foresta”, dimostrandosi incapaci di una riflessione critica e autocritica dei percorsi politici e parlamentari già precedentemente intrapresi, per altro inefficacemente.
Al riguardo delle forze della sinistra così detta radicale che si stanno impegnando nella prossima scadenza elettorale c’è da dire, nel non falso rispetto per le altrui scelte e per l’altrui impegno, che la coerenza nel perseguire il programma che una forza politica si dà, unitamente alle altre implicazioni soggettive quali la volontà, la credibilità, la determinazione del suo gruppo dirigente e delle persone che lo rappresentano unitamente ai programmi perseguiti, sono tutte caratteristiche importanti ma che da sole non bastano a conferire concretezza ed efficacia a una proposta politica complessiva. La storia antica e recente dimostra inoltre che non basta la genuinità dell’intento politico e del programma classista a conferire praticabilità agli obiettivi che si intende perseguire in campo parlamentare.
Praticabilità e efficacia dipendono soprattutto dalla capacità di incidere sui rapporti sociali realmente esistenti vale a dire, schematizzando, sui rapporti tra capitale e lavoro, costruendo quel radicamento sociale nella nostra classe che, anche nel caso della sinistra radicale a vocazione parlamentare, evidentemente difetta.
Se questo è il contesto, che si articola in una situazione di crisi che vede il capitale sferrare un attacco senza precedenti alle condizioni di vita delle classi subalterne, la scelta istituzionale e parlamentare sia pure difensiva e declinata in senso tattico, non si dimostra idonea alla difesa delle condizioni materiali della nostra classe e al perseguimento della sua unità, specialmente in questa fase di declino della democrazia borghese e delle sue istituzioni portanti, conseguente ai grandi processi di ristrutturazione che hanno ridefinito l’assetto capitalistico e imperialistico mondiale, acuendone le contraddizioni e i conflitti, conseguenti al concentrarsi in pochi ambiti incontrollabili dei processi decisionali un tempo propri dei singoli stati e delle loro istituzioni.
Vorremmo poi tentare di fare chiarezza su di un altro importante aspetto. Molte elettrici e molti elettori, così come numerose compagne e compagni della sinistra politica, sindacale e di classe, paventano il pericolo fascista a loro avviso principalmente rappresentato da “Fratelli d’Italia” (FdI) che, almeno nei sondaggi, si sta candidando come primo partito nazionale, facente parte di uno schieramento con “Lega”, “Forza Italia” e “Noi moderati” , che i sondaggi stimano tra il 45 e il 48% e che potrebbe anche sfiorare, se non conseguire, la maggioranza di 2/3 dei seggi parlamentari e dare così il via alla modifica della costituzione, in uno scenario che l’immaginario collettivo riconduce alla presa del potere di Mussolini il 31 ottobre del 1922, immediatamente successiva a “la marcia su Roma”.
Oggi i contesti sono evidentemente diversi e crediamo che sia il caso di ammonire rispetto a queste semplificazioni che, scadenza elettorale dopo scadenza elettorale, paventano il fascismo dietro ogni angolo confondendolo, spesso artatamente, con l’allarmante scivolamento autoritario insito nel ventre molle della democrazia borghese, secondo una tendenza storica per altro già in atto e non solo in Italia.
Ricordiamo al riguardo che sono state proprio le maggioranze concertative, auspicate, rappresentate e/o sostenute dalle formazioni politiche della sinistra storica prima, di “centrosinistra” poi e unitamente al riformismo sindacale a intraprendere scelte, percorsi e provvedimenti che, decennio dopo decennio, hanno pesantemente screditato e aggredito non solo le condizioni di vita della nostra classe e le sue storiche conquiste creando i migliori presupposti sociali per l’attuale sbandamento politico, ma anche i contenuti istituzionali della medesima democrazia borghese previsti dalla costituzione, alla quale non è evidentemente bastato essere “la più bella del mondo”, per resistere efficacemente alle devastanti dinamiche della ristrutturazione capitalistica e del conseguente “neoliberismo”, che l’hanno contratta e impoverita: ma ciò è stato possibile proprio in conseguenza diretta della sconfitta progressivamente subita dalla nostra classe, che “la costituzione più bella del mondo” non ha saputo e potuto impedire.
La costituzione varata il 27 dicembre del 1947, se considerata nei contesti del conflitto di classe e delle vicende che lo hanno caratterizzato dal secondo dopoguerra in poi, è e rimane una dichiarazione di principi che, di per sé, non garantiscono assolutamente niente, come le altre istituzioni borghesi che da essa derivano, d’altronde.
E il fascismo è poi un’altra cosa: una carta estrema che in questo momento il capitale non ha intenzione di giocare.
Un discorso a parte merita la neonata lista “Italia Sovrana e Popolare”, espressione di un movimento sovranista, rossobruno e no vax, che se non ha grandi speranze di superare una qualsivoglia soglia di sbarramento, per quanto esigua, rappresenta la chiusura del cerchio (parlamentare) per personaggi come Grimaldi e Rizzo, finalmente schierati, da bravi stalinisti, con i fascisti e populisti di destra con cui da tempo condividono posizioni decisamente imbarazzanti.
Sappiamo però che contro il fascismo e le derive populiste, nazionaliste e razziste, a poco o nulla valgono le elezioni, mentre necessario è, invece, il presidio politico e culturale, oltre che storico, l’attività di base e la ricostruzione di un tessuto sociale che ridia spazio alla rivendicazione pratica dei diritti e alla costruzione e difesa delle lotte, sempre più sotto l’attacco della repressione e di legislazioni repressive, mai messe in discussione.
La capacità di conseguire conquiste, anche progressive e crescenti, che realmente rafforzino le condizioni di vita e quindi l’unità delle classi subalterne, dei settori sociali deboli e meno rappresentati per il perseguimento e la realizzazione delle istanze di libertà e di emancipazione collettive e individuali, dipende non dalle migliori intenzioni scritte nelle costituzioni borghesi o enunciate nei programmi elettorali o nei parlamenti, ma dalla capacità della nostra classe di incidere efficacemente nel conflitto sociale tra capitale e lavoro, spostando i rapporti di forza che attualmente propendono a totale sfavore di quest’ultimo, per dirla in tutta chiarezza.
Una classe unita, capace di perseguire i propri interessi materiali in una dimensione organizzata e autogestionaria è una classe generale che, liberandosi essa stessa libera anche tutta l’umanità dalla schiavitù del lavoro salariato, dalla necessità del profitto, dalle sue conseguenti devastazioni e dalle istituzioni statali e oppressive che le tutelano e le rafforzano.
Con uguale chiarezza aggiungiamo poi che non è tempo di illusioni: non sarà un programma politico, sia pur chiaro, ben declinato e mirante alla ricerca di consensi elettorali a invertire la rotta.
Il lavoro da fare è un altro, ed è un lavoro lento e paziente di ricostruzione di un tessuto militante consapevole e organizzato, capace di unire la nostra classe su obiettivi concreti in difesa delle sue condizioni di vita, per sostenerla e orientarla nel lento processo della sua emancipazione.
L'opposizione alla guerra in Russia
Yurii Colombo
da "il CANTIERE" annno 2, numero 7, aprile 2022
Secondo Levada, una delle società di sondaggi russe più importanti, il 24 febbraio 2022, all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 59% della popolazione era favorevole all’intervento, il 22% era contraria, e quasi il 20% non aveva una posizione definita.
Tuttavia, con il passare delle settimane e il prolungamento di quella che in Russia non si può definire “guerra” ma solo “operazione speciale” (per cui si può essere condannato dai 3 a15 anni di reclusione), gli umori, anche di chi sosteneva senza tentennamento l’intervento, sono iniziati a mutare.
In primo luogo pen+sano le immagini che – seppur non trasmesse dalla Tv più o meno di stato – giungono sui bombardamenti e i massacri di civili che filtrano dai social network. Questi due popoli ora nemici non solo hanno comuni legami di tipo etnico ma hanno sviluppato nei decenni sovietici delle relazioni familiari molto strette.
Si è calcolato che sono 14 milioni gli ucraini e I russi che hanno legami familiari tra loro e ben 3 milioni di ucraini lavorano in Russia (come dipendenti fissi o stagionali).
Inoltre il peso delle gigantesche sanzioni (“senza precedenti” le ha definite lo stesso portavoce del presidente russo Dmitry Peskov) preoccupano non poco I cittadini russi.
Gli effetti distruttivi delle sanzioni dal punto di vista occupazionale, sono già cruda realtà. Dal 4 marzo la compagnia aerea “S7” ha cancellato tutti i voli internazionali (anche quelli in aree del mondo dove i cieli restano aperti) e buona parte di quelli nazionali e già si parla di bancarotta. “Aeroflot” – la compagnia di Stato – ha visto cancellate buona parte delle rotte internazionali e sarà costretta a ridurre gran parte dei voli anche perché sin da subito non riceverà più i pezzi di ricambio dei Boeing. La low-cost “Pobeda” è invece sicuramente votata al fallimento visto che tutta la sua flotta era stata leasing con una società finanziaria irlandese che ora ha deciso di risolvere unilateralmente i contratti. Si tratta della perdita di migliaia di posti di lavoro che avranno un effetto anche sul turismo e sull’indotto. La settimana sucessiva è arrivata poi una vera e propria mazzata sul comparto automobilistico. La storica fabbrica della Wolkswagen ha chiuso i battenti lasciando a casa 3500 lavoratori. La Porsche tedesca ha deciso di chiudere la propria fabbrica di Kaliningrad. Fuori dal mercato russo anche Nissan, Bmw e Austin, tutte vetture costose di grande cilindrata molto amate dai “nuovi ricchi” russi che però determinerà però un disastro per gli operai che lavorano in quelle aziende. Anche la Autovaz, la più grande fabbrica automobilistica di Togliatti (città sul Volga chiamata così in onore al segretario del PCI), con un laconico comunicato ha lasciato a casa i suoi operai fino a data da destinarsi.
Il gigante americano della ristorazione fast-food McDonald ha deciso di chiudere gli 850 ristoranti presenti dal paese e ciò significherà una perdita di 15 mila posti di lavoro anche se il sindaco di Mosca Seregey Sabyanin si è detto pronto ad aprire una cinquantina di fast-food con pasti della cucina russa già nelle prossime settimane. Anche Ikea ha deciso in pochi giorni di svendere i mobili presenti nei suoi magazzini e di chiudere tutti i suoi negozi lasciando a casa ben 1.300 lavoratori.
La svalutazione del rublo che ne è conseguita – quasi del 100% rispetto a euro e dollaro in poche settimane – ha ridotto significativamente le possibilità di acquisto della gente comune visto che la Russia è un’economia votata all’importazione di prodotti finiti. Un esempio per tutti: la Russia import oltre il 70% dei mediciali dall’occidente e anche se i produttori occidentali hanno informato che saranno garantite tutte le medicine essenziali insulina compresa, i prezzi sono destinati ad andare alle stelle: un vero disastro visto che non sono passati gratuitamente dal servizio sanitario nazionale.
Non perdono d’intesità anche le proteste di strada. Ogni giorno in tutta la Russia ci sono mobilitazioni – soprattutto i giovani universitari – per dire no risoluto no alla guerra. Fino ad oggi secondo il portale Ovd-Info dall’inizio dell’operazione militare sono stati fermate 15 mila persone. Molte centinaia di donne e uomini scesi in piazza stanno subendo processi amministrativi e qualche decina purtroppo dovranno subire un processo penale.
In prima fila ovviamente nelle iniziative le metropoli di Mosca e San Pietroburgo ma anche in altre 35 città della Russia grandi e piccole, europee e siberiane ci sono state proteste contro l’intervento in Ucraina. Un onda destinata ad aumentare quando l’aumento l’inflazione diverrà devastante e anche I lavoratori potrebbero mettersi in movimento come è già successo in una fabbrica di Nizhny Novgorod.
La sinistra antagonista e il movimento libertario russo stanno attivamente partecipando alle manifestazioni che attraversano il paese. Lo storico gruppo “Avtonom” che si colloca a metà strada tra l’anarchismo “classico” e il consiliarismo della nuova sinistra, sostiene in un suo volantino distrubuito durante le proteste che bisogna “rifiutare di sottomettersi alla censura militare russa e sostenere apertamente e chiaramente che questa è una guerra. Una guerra d’ivasione condotta dall'esercito russo. Gli ucraini si stanno difendendo con successo con le armi in mano contro gli occupanti, ma noi che ora siamo in Russia non possiamo farci da parte. Dobbiamo dimostrare a noi stessi e al mondo che siamo contro questa guerra, di cui solo Putin e la sua banda ne hanno bisogno. Essere contro la guerra è il vero antifascismo in questo momento". Secondo “Avtonom” il protrarsi del conflitto dimostra che “le autorità russe sono nel panico adesso. Hanno già capito che stanno perdendo la guerra. Ed è per questo che minacciano istericamente i partecipanti alle azioni contro la guerra con l'espulsione, il licenziamento, l'invio immediato nell'esercito o il carcere. Non abbiate paura di loro. Gli ucraini nelle loro città stanno protestando contro gli occupanti a mani nude. Contro i soldati con le mitragliatrici. Contro i carri armati" e chiedono “la fine immediata della guerra. Chiediamo il ritiro immediato e incondizionato delle truppe russe dall'Ucraina. Questa è la condizione principale per ogni ulteriore azione: l'aggressione russa deve cessare (…) Ma dobbiamo anche lottare per il futuro della Russia. Al dittatore pazzo non resta molto tempo: la piccola guerra vittoriosa non è andata secondo i piani e ora è solo una questione di tempo e di mezzi concreti per eliminarlo. Ma cosa succede dopo, dopo Putin? Le province che compongono la "Federazione Russa" si trovano in questo momento a un bivio storico. Il crollo del regime di Putin potrebbe innescare processi di liberazione. Indubbiamente, non porteranno immediatamente a un ideale anarchico - ma almeno la Russia smetterà di essere in guerra con il resto del mondo e la sua stessa popolazione. Tuttavia, un'altra variante di "cosa succederà dopo Putin" è anche possibile: una perpetuazione ancora maggiore del regime autoritario, una chiusura completa di tutte le frontiere e una cessazione dei contatti internazionali". Insomma una dittuatura ancora più aperta di quella che già ora i russi sopportano anche se i libertari di Avtonom” restano ottimisti: “L'inv"erno sta per finire. La primavera sta arrivando".
Per gli anarco-sindacalisti del “Kras” che sin da subito hanno rifiutato di farsi arruolare dalla propaganda della Russia e dalla Nato, mobilitandosi dovunque fosse possibile, è ora il tempo di un’analisi dei motivi di fondo del conflitto.
“Prima di tutto – sostengono gli anarcosindacalisti russi - è necessario capire che ci sono diversi livelli di conflitto e diversi livelli di contraddizioni intercapitalistiche. A livello regionale, la guerra di oggi è solo una continuazione della lotta tra le caste dominanti degli stati post-sovietici per la ridivisione dello spazio post-sovietico.
Contrariamente al mito popolare, l'Unione Sovietica è crollata non come risultato dei movimenti di liberazione del popolo, ma come risultato delle azioni di una parte della nomenklatura dominante, che ha diviso territori e zone di influenza tra di loro, quando i metodi abituali e stabiliti del loro governo erano in crisi.
Il secondo livello di conflitto è la lotta per l'egemonia nello spazio post-sovietico tra lo stato più forte della regione, la Russia, che sostiene di essere una potenza regionale e considera l'intero spazio post-sovietico come un'area dei suoi interessi egemonici, e gli stati del blocco occidentale (sebbene anche qui gli interessi e le aspirazioni degli Stati Uniti e dei singoli stati europei della NATO e dell'UE possano non essere esattamente gli stessi). Entrambe le parti cercano di stabilire il loro controllo economico e politico sui paesi dell'ex Unione Sovietica. Da qui lo scontro tra l'espansione della NATO verso est e il desiderio della Russia di assicurare questi paesi sotto la sua influenza. Il terzo livello di contraddizioni è di natura economico-strategica. Non è un caso che la Russia moderna venga chiamata "un'appendice degli oleodotti e del gas". La Russia gioca oggi sul mercato mondiale, prima di tutto, il ruolo di fornitore di risorse energetiche, gas e petrolio”. Per il Kras, malgrado sia necessario battersi contro la “guerra di Putin” non è possibile assumere una posizione “difensivista” a favore dell’Ucraina però, non ci troveremmo in una situazione simile a quella della guerra civile spagnola del 1936-1939. “Dal nostro punto di vista, non c'è e non può esserci paragone con la situazione della guerra civile in Spagna. Gli anarchici spagnoli sostenevano una rivoluzione sociale. Allo stesso modo, non c'è paragone tra, per esempio, il movimento makhnovista in Ucraina e la difesa del moderno stato ucraino. Sì, Makhno ha combattuto contro gli invasori stranieri, austro-tedeschi, e contro i nazionalisti ucraini, e contro i bianchi e, alla fine, contro i rossi. Ma i partigiani makhnovisti combattevano non per l'indipendenza politica dell'Ucraina (alla quale, di fatto, erano indifferenti), ma in difesa delle sue conquiste sociali rivoluzionarie: per la terra dei contadini e la gestione operaia dell'industria, per i soviet liberi. Nella guerra attuale, stiamo parlando esclusivamente dello scontro tra due stati, due gruppi di capitalisti, due nazionalismi.
Non sta agli anarchici scegliere il "male minore" tra loro. Non vogliamo la vittoria di uno o dell'altro. Tutta la nostra simpatia va ai lavoratori comuni che oggi stanno morendo sotto le granate, i missili e le bombe”.
Agire il conflitto
per riprendere l'iniziativa
Segreteria Al/FdCA
Da "il Cantiere" anno 2, numero 5 - febbraio 2022 ↑
La storia del movimento operaio, nel suo oramai ultracentenario sviluppo, non ha tracciato un uniforme cammino di progresso. A periodi di grandi slanci in avanti sono seguiti anni bui di arretramenti; dal “sol dell'avvenire” sogno e prospettiva utopica che sembrava oramai realtà dietro l'angolo, al baratro delle camere del lavoro devastate e incendiate fino alla interiorizzazione del razzismo come idea di sviluppo delle nazioni. Questa onda che sale e che scende se la esaminiamo con attenzione ci consegna una lettura della storia molto nitida. Il progresso è sempre legato a periodi in cui il movimento dei lavoratori, attraverso la lotta economica, nelle fabbriche, nelle miniere, nei campi negli uffici, riesce a strappare migliori condizioni di vita in termini di salario, di tempo di lavoro, di ritmi, di salubrità; cioè quando determina rapporti di forza favorevoli alla propria classe di appartenenza.
È in questi periodi che lo Stato, sollecitato anche dal mondo imprenditoriale, per contenere le sempre più pressanti richieste del mondo del lavoro, vara norme che nel recepire anche le istanze provenienti dalle lotte operaie le codifica ed in questo modo le cristallizza e ne determina un tetto. La legge, qualsiasi legge, anche quelle che segnano un progresso rispetto alla precedente situazione non possono essere assunte come volano del conflitto di classe. Le leggi tendono allo status quo e quindi per loro natura tendono a spengere il conflitto di classe.
Di converso quando le condizioni nei rapporti di forza si invertono e a dettare le condizioni sono i padroni, pubblici o privati che siano, vi è una fiorente azione legislativa che sotto il manto della razionalizzazione, della modernizzazione, del conformarsi alle politiche europee e a dettami del WTO, dello spread e delle borse, spazza vecchie conquiste, impone nuovi limiti, costruisce gabbie, forzando il corso della storia verso il passato. La storia di questi anni recenti e meno recenti testimonia questo processo. Dalla abolizione della scala mobile, allo smantellamento della legge 300/70 – Statuto dei Lavoratori- compreso quell'art. 18 che colpevolmente la sedicente sinistra istituzionale e la condiscendenza sostanziale delle confederazioni sindacali hanno cancellato. Accanto a questi che sono i fenomeni eclatanti dell'azione restauratrice, vi è stato tutto un processo di riscrittura delle norme del lavoro che nel lavoro pubblico si è sviluppato nel senso di ricondurre sotto l'egida della legge ciò che prima era demandato alla contrattazione e nel lavoro privato, vari accordi interconfederali hanno ormai sancito che “anche i contratti aziendali possono derogare in peius ai contratti nazionali, senza che osti il disposto dell’art. 2077 c.c., con la sola salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori . (Cass. 15/9/2014 n. 19396, Pres. Roselli Rel. Maisano, in Lav. nella giur. 2015, 91) .
Il sindacalismo confederale in questi anni ha oscillato tra subalternità e acquiescenza rispetto alla azione delle controparti e anziché cercare un rapporto nuovo con i lavoratori e le lavoratrici che organizza e che dovrebbe rappresentare si chiuso in una gestione burocratica cercando la legittimazione delle controparti e non quella dei lavoratori. La democrazia interna ha capovolto la piramide, alla base vi è il vertice che discute e decide, a cascata i dirigenti intermedi, i delegati, gli iscritti vengono informati, nella migliore delle ipotesi, ma non possono decidere niente.
Di recente la “Conferenza di Organizzazione della CGIL” ha avuto queste caratteristiche.
Per contrastare questa deriva che ha sempre di più i connotati di una razionalizzazione reazionaria ed autoritaria, la strada maestra è quella di aprire senza fraintendimenti un ampio, articolato e lungo conflitto di classe che in ultima istanza imponga a governo, padroni, partiti politici di governo e d’opposizione, all’insieme delle organizzazioni che costituiscono la società civile, una nuova stagione che abbia come fulcro l’affermazione dell’uguaglianza sostanziale e non formale, cioè intesa come uguaglianza del punto di arrivo e non semplice concetto di pari opportunità al punto di partenza, che, dando sostanza e concretezza, ponga con determinazione la centralità dei diritti e dei bisogni dei lavoratori.
La pandemia ha accresciuto le
disuguaglianze e l’ingiustizia sociale
Alternativa Libertaria/FdCA
pubblicato ne "il Cantiere" anno 1 - n° 2 ottobre 2021
«Dove andare, cosa fare con quel bisogno di assoluto, quel desiderio di combattere, quella sorda volontà di evadere malgrado tutto dalla città e dalla vita senza evasione possibile?
Ci occorreva una regola. Adempiere e darsi: essere. Capisco, alla luce di questa introspezione, il facile successo dei ciarlatani che offrono ai giovani le loro regole dozzinali: “Marciare al passo inquadrati e credere in Me”. In mancanza di meglio... È l’insufficienza degli altri che fa la forza dei Führer: in mancanza di una bandiera degna, ci si mette in marcia dietro le bandiere indegne; in mancanza di metallo puro, si vive di moneta falsa». (Victor Serge “Memorie di un rivoluzionario”).
Poche altre parole come queste proferite da Serge all’inizio del 1940, esprimono contenuti di estrema attualità, là dove l’imprevedibilità dei fenomeni si replica a livello quotidiano, in una realtà contraddittoria e a tratti fortemente regressiva per la nostra classe; una realtà allarmante che deve comunque essere riconosciuta perché l’identificazione è il primo passo pratico per combattere e modificare le realtà ostili.
L’attacco alla sede nazionale della CGIL del 9 ottobre u. s. rimanda indubbiamente agli albori del ventennio fascista, quando gli squadristi sferrarono un sanguinoso e generalizzato attacco alle organizzazioni politiche e di massa del movimento operaio e sindacale; un attacco maturato in conseguenza a un altro fenomeno meno appariscente ma non meno letale: l'uso delle folle, che il fascismo seppe praticare con destrezza. A guidare l’assalto alla sede nazionale del sindacato italiano più rappresentativo non solo per il numero di adesioni ma per la sua storia ultra secolare, vi era un manipolo di squadristi che aveva pianificato l’azione certamente contando anche sulla passività delle cosiddette forze dell’ordine, solerti ed efficaci nell’intervenire contro i presidi operai davanti alle fabbriche e i movimenti di opposizione , ma assenti o distratte quando si tratta di intervenire per bloccare sul nascere l’insorgenza fascista. Ma dietro a questi noti esponenti del neofascismo vi era anche e soprattutto la folla nelle sue componenti più contraddittorie e esasperate.
Quindi massima solidarietà alla CGIL e un plauso alle organizzazioni sindacali di base che hanno accantonato ogni polemica solidarizzando con la CGIL e con le lavoratrici e i lavoratori che rappresenta ma, oltre la necessaria solidarietà l’assalto rimanda alla necessità dell’analisi che tentiamo di esporre nei seguenti punti schematici, parziali e quindi certamente non esaustivi, consapevoli che quando queste pagine verranno date alle stampe necessiteranno di essere aggiornate per l’incalzare degli avvenimenti.
1 La pandemia ha esasperato le contraddizioni di una crisi economica perdurante da oltre un decennio che ha accresciuto le disuguaglianze e l’ingiustizia sociale;
2 il contenimento delle richieste sindacali, perseguito dai gruppi dirigenti confederali (CGIL – CISL – UIL) e dai vecchi partiti della sinistra storica (PCI, PSI) fin dagli anni 70 del ‘900, non ha prodotto le riforme all’epoca vaneggiate, ma ha agevolato quei processi di ristrutturazione che hanno caratterizzato la produzione di merci, di servizi e del mercato del lavoro, ridisegnando la struttura sociale del nostro paese in base alle esigenze di estrazione e accumulazione dei profitti a scapito delle condizioni di vita delle lavoratrici, dei lavoratori e di consistenti settori del ceto medio e, soprattutto, degli strati sociali più deboli della nostra classe in primo luogo le donne e la mano d’opera immigrata, distruggendo il welfare, dilatando la piaga del precariato e del super sfruttamento con la cancellazione di diritti collettivi fondamentali;
3 tra le classi sociali oppresse crescono le proteste che spesso culminano nella rabbia e nella disperazione di chi non vede alternativa alla propria condizione di marginalità e di immiserimento; ne consegue la perdita di fiducia in ogni rappresentanza; in un simile contesto si sviluppa la crisi dell’organizzazione sindacale nella sua accezione più ampia, e anche i gruppi dirigenti confederali non riescono più a moderare efficacemente il conflitto sociale e perdono quel ruolo concertativo sul quale avevano costruito la loro efficienza, oltre a decine di migliaia di adesioni ogni anno, in un vero e proprio processo di desindacalizzazione. Ma la crisi coinvolge anche le organizzazioni sindacali di base che, nonostante gli sforzi intrapresi con rinnovato intento unitario, come lo sciopero generale dell’11 ottobre u. s., non riescono a intercettare la protesta che altrimenti si disperde;
4 le lotte in corso alla GKN e in altre situazioni dell’industria, della logistica e dei servizi, per quanto abbiano espresso elevati livelli di conflittualità e sperimentato forme di auto organizzazione superando il contrasto tra sigle, operano in un contesto estremamente ostile che non depone a loro favore, subiscono la pressione di rapporti di forza sfavorevoli tra capitale e lavoro e, nonostante le energie profuse e la solidarietà stimolata e raccolta, non riescono a generalizzarsi a livelli più ampi;
5 i movimenti che solo per esigenze identificative accettiamo di denominare “no vax” e “no green pass”, sono il prodotto di questa diffusa situazione di sconfitta alla quale, va detto, il fallimento delle politiche riformiste non può dirsi estraneo con tutte le conseguenze del caso, anche sul piano della perdita di fiducia e di consapevolezza di classe di consistenti strati operai e proletari che si volgono a destra. Tutti questi movimenti sono compositi e contraddittori da un punto di vista sociale e di classe; esprimono caratteristiche anche comportamentali che le avvicina alla folla la quale, per le sue caratteristiche, non è necessariamente fascista né necessariamente proletaria, perché la folla è inevitabilmente interclassista e, in quanto tale, inevitabilmente esposta agli eventi, alle strumentalizzazioni e all’inevitabile infiltrazione fascista. Ma aver definito in toto fascista questo tipo di movimenti esprime l’allarmante tendenza alla liquidazione dei fenomeni sociali non allineati che, per altro, allontana dalla comprensione della realtà e prepara nuove catastrofi;
6 l’attacco alla CGIL diretto da elementi indiscutibilmente fascisti nasce nei sopradetti contesti, ed è stato agevolato anche dalla lunga serie di azioni repressive da parte del padronato e degli apparati istituzionali dello stato, che in questi ultimi mesi e a più riprese, si sono scagliati contro i presidi operai e le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori, azioni repressive queste per lo più minimizzate e rimosse e che hanno raggiunto livelli di solidarietà non all’altezza della gravità dei fatti;
7 la prova che la folla non è necessariamente fascista è data poi dall’esperienza dei lavoratori portuali che, in alcune importanti realtà, si sono dati un’organizzazione autonoma schierandosi contro il green pass con grande radicalità e determinazione. Queste realtà, come quelle dell’autotrasporto, sono radicate e rappresentative ed esprimono una condizione di disagio che va ben oltre i luoghi di lavoro, per calarsi nelle contraddizioni dei territori, riuscendo a contrastare se non a scongiurare del tutto, l’infiltrazione fascista;
8 queste realtà, nonostante abbiano alle spalle esperienze sindacali e politiche prestigiose, si stanno aggregando su di un obiettivo nato tra le folle composite e contraddittorie. Dichiarano di lottare per tutte le lavoratrici e i lavoratori italiani in un sincero intento unitario che respinge i compromessi (il tampone gratuito per tutte e per tutti), fino all’abolizione integrale del green pass. La dichiarazione è corretta come l’obiettivo d’altronde, e il radicamento in alcune importanti realtà quali il porto di Trieste è la prova che è un obiettivo perseguibile. Ma la scelta di porre un obiettivo come l’abolizione del green pass, nato e perseguito in un contesto interclassista che lo rende fragile e non necessariamente unitario, al centro di una aggregazione sindacale e di classe in una fase di violento attacco padronale alle condizioni di vita delle classi subalterne, appare realmente credibile? Perché non legare l’opposizione al green pass a altri obiettivi unitari quali la difesa del lavoro, del salario e la riduzione dell’orario (di lavoro) a parità di paga valorizzando, rafforzando e estendendo le esperienze organizzative e le mobilitazioni della GKN e di altre iniziative unitarie di lotta? Sono domande che riteniamo legittime anche perché vi è il fondato pericolo di andare allo scontro con il governo del grande capitale circondati dalla folla e non dalla classe, per altro con un obiettivo fragile e non necessariamente unitario se perseguito isolatamente, qual è quello dell’abolizione del green pass. Alcune risposte verranno dal precipitare degli avvenimenti, altre ancora dovranno essere fornite dall’analisi scientifica e attenta dei fatti determinati che con grande modestia stiamo elaborando ma, in ogni caso l’ammonimento di Victor Serge non perde di validità ma anzi, si accresce.
Speciale ILVA Taranto

Solidarietà internazionalista alla Colombia
Il mondo guarda oggi alla Colombia; le sue vie e le sue strade sono state il palcoscenico in cui il popolo è esploso con dignitosa rabbia in un grido impetuoso che risuona e non può passare inosservato. La protesta sociale, che va avanti ininterrottamente dal 28 aprile, è la risposta all’aggravarsi della povertà e della precarietà di vita (conseguenze inevitabili del modello neoliberale) che, nel mezzo della crisi sanitaria, economica e sociale, si traduce in 1,7 milioni di case colombiane che mangiano solo due volte al giorno, un tasso di disoccupazione del 14,2% e quasi la metà della popolazione, il 42,2%, in una condizione di povertà....continua a leggere
Dichiarazione anarchica internazionale sul centenario della rivolta di Kronstadt del 1921
Il 1° marzo 1921, il Soviet di Kronstadt si sollevò in rivolta contro il regime del Partito "Comunista" russo. La guerra civile era effettivamente finita, con l'ultimo degli eserciti bianchi nella Russia europea sconfitto nel novembre 1920. Le rimanenti battaglie in Siberia e in Asia centrale erano oltre l'estensione territoriale di quella che sarebbe stata l'URSS l'anno successivo. Le condizioni economiche, tuttavia, rimanevano terribili. In risposta, gli scioperi scoppiarono in tutta Pietrogrado nel febbraio 1921. I marinai di Kronstadt inviarono una delegazione per indagare sugli scioperi. ........continua a leggere
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Lettera alle Organizzazioni Comuniste Anarchiche europee
Le compagne e i compagni di Alternativa Libertaria/FdCA ritengono che l'affermazione di un nuovo protagonismo dei lavoratori passa necessariamente attraverso una ritrovata capFrancia e Die Plattform Germania.acità di mobilitazione e una progettualità internazionale, a tal fine hanno rivolto un appello alle organizzazioni sorelle europee per riannodare i fili dell'internazionalismo proletario rilanciando la lotta per una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro. Di seguito la lettera che abbiamo inviato e alla quale hanno dato al momento un riscontro positivo l'UCL ......continua a leggere
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Referendum 20 - 21 settembre 2020
Immancabile, come sempre si apre lo scenario parlamentare e referendario.
Il referendum costituzionale del 20-21 settembre, nella stessa giornata si terranno anche elezioni amministrative e regionali, sta mettendo in luce per l’ennesima volta il reale stato della politica parlamentare in Italia.
Un referendum confermativo, senza quorum da raggiungere, che sarà probabilmente oscurato dai risultati delle regionali e delle amministrative.
Nella riforma approvata dal parlamento in ottobre 2019 sia il M5S che ne è stato il promotore, quanto quasi tutti i parlamentari degli altri partiti si sono detti favorevoli al taglio dei parlamentari sia per il Senato che per la Camera dei deputati, salvo poi dissociarsi e riposizionarsi al referendum su fronti contrapposti e nebulosi. E’ l’esempio della Lega di Salvini e del partito di Giorgia Meloni, che si sono espressi per tagliare il numero dei rappresentanti, ma ad oggi non si sono impegnati a sostenere il Si al referendum. Oppure del PD, partito che sempre più coincide con la propria classe dirigente, oltre a qualche vassallo qua e la per l’Italia, che si sta schierando a malincuore per il SI sacrificando ciò che rimane della sua base elettorale, propensa a difendere la Costituzione così com’è, per quel che vale.
Se il quadro politico è tanto desolante, la rappresentanza parlamentare oggi è rappresentanza diretta del potere economico e industriale, raramente come oggi nessun parlamentare rappresenta e persegue gli interessi reali delle classi subalterne: il centro della società d’altronde è l’impresa, cioè il mercato e il capitale, ed è in questo senso che viene ripensata la composizione parlamentare.
Riuscire a vedere (e vendere) come se fosse una questione di risparmio il taglio di un terzo del numero dei parlamentari, e una rivincita verso una classe politica corrotta e incapace, è operazione evidentemente meno che di facciata, simile all’abolizione delle provincie di alcuni anni fa. Riforma in cui ovviamente le provincie non vennero abolite, e oggi vengono amministrate da partiti e uomini della politica, senza elezioni, semplicemente per nomina diretta della classe politica ed economica.
La democrazia parlamentare è sempre più svuotata e, con i rapporti di forza tra le classi da tempo favorevoli al capitale, procede lo smantellamento con gli interessi di tutte le conquiste che le lavoratrici e i lavoratori avevano ottenuto con lotte durissime. Così nello scontro imperialistico per il controllo dei mercati le istituzioni democratiche borghesi sono di fatto esautorate, e contano sempre meno, e sono inevitabilmente adeguate ai tempi e ai modi dell’economia capitalistica. Considerando che le classi subalterne sono state sconfitte anche con l’ausilio delle ambiziosissime e fallimentari strategie del riformismo politico e sindacale che non hanno regolato e controllato il capitalismo, ma lo hanno rafforzato.
Non sarà quindi, come sempre, l’esito di questo referendum a modificare gli assetti di questo paese: entrambi gli schieramenti, tra demagogia e nostalgia costituzionale eludono, perché avversano o sottovalutano, la considerazione secondo la quale la democrazia è il prodotto del rapporto tra le classi sociali e non viceversa.
Serve invece fare la propria parte in questo mondo, giorno per giorno, contro la dittatura delle oligarchie finanziarie e industriali, contro il razzismo e la classe politica fascista che lo propaganda, contro il militarismo e la società patriarcale e sessista, per una battaglia ecologista ed anticapitalista, costruendo reti di opposizione sociale nelle piazze e non battagliando sui social.
Proprio perché siamo in una fase internazionale che svelerà presto le proprie risultanti dei rapporti di forza tra le classi e gli obiettivi del capitale, che sono quelli di riprendere il controllo della società, e sarà in quella mischia che dovremo batterci per la libertà e per la giustizia sociale, nel modificare i rapporti sociali imposti dallo Stato e dal capitalismo, a favore della nostra classe.
Alternativa Libertaria, settembre 2020
Sul Referendum costituzionale del (29 marzo 2020) 20 -21 settembre
di Giulio Angeli
Prima di iniziare una riflessione sulla fase in atto è necessaria una breve premessa sul COVID-19, assurto alle cronache come “corona virus”. Senza entrare nel merito della così detta epidemia e delle sue complessità, è interessante notare che in prima linea c’è la sanità pubblica con tutte le sue strutture centrali e periferiche e, soprattutto, con il suo personale medico, paramedico, ausiliario, tecnico e amministrativo, a tempo indeterminato e precario, comunque impegnato a fronteggiare con spirito di abnegazione e con risorse limitate dai molteplici tagli al sistema sanitario già sconvolto dai processi di privatizzazione che ne hanno ridotto l’efficienza, l’insorgere e il diffondersi del virus: la sanità privata è semplicemente assente perché non è finalizzata alla pubblica utilità ma solo ed esclusivamente alla realizzazione del profitto. E’ questa una indicazione strategica che dovrebbe essere recepita in primo luogo dalle forze di resistenza del movimento sindacale le quali, anziché impegnarsi contro il taglio dei parlamentari dovrebbero rivedere i loro diffusi connubi e le subalternità ai processi di privatizzazione che dovrebbero invece essere efficacemente contrastati con una vertenza unitaria e di massa per la difesa e il rilancio dello stato sociale.
Invece si pensa al referendum sul taglio dei parlamentari che si celebrerà il 29 di marzo. 20 – 21 settembre.
“Ci risiamo: l’ennesimo referendum inutile che per altro costerà agli italiani circa 300 milioni di euro, quando i problemi sono altri”; “Il taglio è una decisa risposta politica alle critiche e alle esigenze dei cittadini; non mutila la democrazia e non aiuta l’antipolitica”. “Limitare il numero dei parlamentari è limitare l’espressione dei cittadini. Il NO è chiamato ancora una volta a difendere la Costituzione e la democrazia”. Ecco in estrema sintesi, alcune posizioni correnti circa il prossimo referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Argomento controverso che da qualunque punto di vista lo si affronti appare obiettabile. C’è da dire che, se il paragone viene fatto con i comuni cittadini, i parlamentari assumono ingiustificate posizioni di privilegio economico, normativo e di status sociale a cui consegue una scarsissima efficienza delle istituzioni parlamentari che, quando operano, lo fanno spessissimo per comprimere gli interessi delle classi subalterne a esclusivo vantaggio delle classi e fazioni capitalistiche in generale il che, se associato all’elevato numero di pregiudicati, inquisiti, prescritti e mestieranti della politica che siedono in parlamento, crea disappunto e rabbia tra la categoria dei rappresentati che si allontanano sempre più dalle istituzioni statali e dal terreno della partecipazione democratica e rappresentativa, fino a sposare posizioni decisamente qualunquistiche che facilmente degenerano in un antiparlamentarismo autoritario, anticamera della reazione. Ma non è possibile ovviare a tutte queste degenerazioni della democrazia (borghese), spesso inevitabili proprio in quanto costituiscono il prodotto di una transizione storica che vede le istituzioni parlamentari al sevizio delle classi possidenti, diminuendo il numero dei parlamentari senza perseguire disegni demagogici e reazionari. In realtà, l’intento è un altro: quello di aprire le istituzioni parlamentari solo a quelle candidature forti, e potremmo anche dire occulte, al fine di limitare la rappresentanza e la democrazia costituzionale, accelerando le derive autoritarie che percorrono dal profondo la società: il che, effettivamente spaventa. Da questo punto di vista le ragioni del No al taglio dei parlamentari suonano meglio di quelle demagogiche del SI, anche se sono caratterizzate dall’innegabile difetto di lasciare le cose come stanno per quanto riguarda le degenerazioni concrete e evidentissime della pratica reale della democrazia parlamentare. Circa l’indistinta categoria dei cittadini elettori c’è da dire che di questi, nel segreto dell’urna, chi voterà SI lo farà per lo più reattivamente, proprio perché nel NO individua la difesa delle “status quo” che detesta. E’ una reazione se vogliamo “nichilista” ma che trova la sua concretezza nel fatto che per votare NO è necessario svolgere un ragionamento un poco sofisticato e astratto dai condizionamenti del reale, e interi settori di popolazione votante non lo svolgono. E’ quindi presupponibile che, ribaltando lo scenario e i risultati del referendum costituzionale del dicembre del 2016 contro la riforma Renzi – Boschi, questa volta prevalga il SI. Ma cosa devono fare i rivoluzionari e i comunisti anarchici in queste situazioni?
La prima cosa da fare è contestualizzare.
In questi ultimi cinquanta anni, dopo la legge 352 del 1970 che applicava il dettato costituzionale, la stragrande maggioranza delle materie sottoposte a referendum non hanno riguardato, o non riguardano più, la difesa delle condizioni di vita e degli interessi delle classi subalterne come ad esempio accadde per i referendum sul divorzio (1974), sull’aborto (1981) e per altri versi per quello sulle centrali nucleari (1986) e sull’acqua pubblica (2011), vinto e mai applicato, comunque tutti sostenuti da forti, radicati e consapevoli movimenti di massa, il che non si è verificato nelle altre scadenze referendarie ad eccezione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (monarchia o repubblica) che con la percentuale dell’89,1% registrò la più alta partecipazione al voto. In totale dal 1946 ad oggi vi sono stati n. 1 referendum istituzionali; n. 1 referendum di indirizzo; n. 3 referendum costituzionali (quello del prossimo marzo sarà il quarto); n. 67 referendum abrogativi; per un totale di n. 72 scadenze referendarie effettuate: una vera e propria inflazione. Si è così definita una vera e propria scorciatoia che ha istituzionalizzato, depotenziandola, l’azione di massa e di classe avviandosi verso una prassi referendaria autoreferenziale e intrecciata con le dinamiche istituzionali, che ha illuso e illude che queste ultime possano essere plasmabili dal suffragio universale, e dalla partecipazione “popolare” e interclassista, replicando quanto già affermarono Marx e Engels nel lontano 1852 e che non ci stanchiamo di ripetere:
“Cretinismo parlamentare, infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l'onore di annoverarli tra i suoi membri, e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio, - guerre, rivoluzioni, costruzioni di ferrovie, colonizzazione di interi nuovi continenti, scoperta dell'oro di California, canali dell'America centrale, eserciti russi, e tutto quanto ancora può in qualsiasi modo pretendere di esercitare un'influenza sui destini dell'umanità,- non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all'importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l'attenzione dell'onorevole loro assemblea”.
(Engels "Rivoluzione e controrivoluzione in Germania" 1851 – 1852)
Ora sbaglierebbe chi ritenesse le sopraddette considerazioni come ideologiche. Questo è, francamente, un trito luogo comune per giungere a conclusioni precostituite, quando le sopraddette considerazioni sono in realtà gravide di concretezza storica in quanto quello referendario è un terreno fragilissimo e insidioso da usare quindi con grande cautela proprio perché tende a coinvolgere l’astratta categoria delle elettrici e degli elettori, chiamando al voto strati sociali che perseguono interessi di classe diversificati e talvolta avversi (vedi il referendum del giugno del 1985 sul taglio dei punti della scala mobile, referendum proposto dall’allora PCI e sostenuto dalla maggioranza della CGIL e clamorosamente perso). Viceversa, il piano del conflitto sociale che trae consenso dalla difesa degli interessi materiali delle classi subalterne è ben più solido e suscettibile di replicarsi nel corso della storia, anche in circostanze avverse. Facciamo un esempio per evidenziare quanto il “cretinismo parlamentare” sia una categoria tutt’altro che astratta ed anzi ben rappresentata in quantità e qualità:
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Piano della politica.
Si consideri il Partito democratico e le sue esperienze di governo. Il referendum costituzionale del dicembre del 2016, che prevedeva “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari” secondo la riforma Boschi – Renzi, fu vinto dallo schieramento di opposizione al governo Renzi che, invece, ne fu promotore: in quell’occasione i No stravinsero, raggiungendo il 59,1% contro i SI che si attestarono al 40,9%. E’ interessante evidenziare un dato universalmente rimosso: essendo stata la percentuale dei votanti del 65.5% i NO vinsero con una percentuale assoluta pari al 38,7 degli aventi diritto. Alle elezioni Europee del 2014 il partito democratico ottenne il 40,8% dei voti (percentuale dei votanti pari al 57,22%) mentre alle elezioni europee del 2019 lo stesso partito democratico avrebbe ottenuto il 22,84% (-18,07%) su una percentuale dei votanti pari a 54.5%.
Al prossimo referendum costituzionale è legittimo supporre un risultato dei SI suscettibile di ribaltare il precedente successo dei NO.
Se alla conferma di questa ipotesi si associa il crollo del PD alle ultime elezioni Europee e che consistenti fluttuazioni di voto riguardano molte forze politiche, si descrive la fragilità del sistema referendario ormai troppo distante dai movimenti di massa, dal conflitto di classe e inevitabilmente condizionato dalle schermaglie parlamentari. La crisi della politica è, in realtà, crisi di consensi sociali: le alleanze elettorali e politiche pesano non tanto e non solo per il numero dei voti che raccolgono, quanto per le alleanze sociali e di classe che sono in grado di esprimere. Alleanze sociali stabili consentono politiche organiche; alleanze sociali fragili determinano fluttuazioni e improvvisazioni elettorali con tutte le conseguenze del caso, come sta accadendo nel teatrino della politica parlamentare.
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Piano del conflitto di classe.
Il 20 maggio del 1970 viene approvata la Legge n. 300, meglio nota come “Statuto dei lavoratori”. Non è questa la sede per affrontare i contenuti della legge e certamente può essere detto che essa interpretò al ribasso il grande ciclo di lotte e il protagonismo di classe degli anni ’60 del ‘900 e che, obiettivamente, di quelle lotte consentì il parziale recupero ma, non ostante i suoi limiti e ritardi, lo Statuto dei Lavoratori avrebbe certamente costituito una grande conquista del movimento operaio e sindacale nell’Italia di quegli anni: una conquista strappata con lotte unitarie, dure e capillari alla classe padronale che a distanza di 50 anni non ha ancora smesso di fargli la guerra.
Si potrebbe obiettare che lo Statuto dei Lavoratori fu possibile per l’opera del precedente ministro del lavoro il socialista Giacomo Brodolini (ex sindacalista CGIL) e del ministro del lavoro del governo allora in carica, il democristiano Carlo Donat Cattin (ex sindacalista CISL); dell’azione parlamentare dei partiti di opposizione (PCI, PSIUP) che, pure, votarono in pratica contro lo “Statuto”. Ma tutte quelle azioni politiche fondamentali costituirono non l’origine ma la conseguenza che il conflitto aveva determinato sul padronato e sulle istituzioni borghesi che, sia pure temporaneamente, erano state costrette a cedere sotto la pressione di durissime lotte unitarie che in taluni casi avevano scavalcato anche il sindacalismo confederale.
Ecco perché, a differenza della politica parlamentare e alle sue alterne vicende fragili e talvolta effimere, così profondamente caratterizzate da “cretinismo parlamentare”, lo Statuto dei Lavoratori, quale conseguenza del conflitto di classe, dura ancora oggi e continua a turbare i sonni del padronato, del parlamentarismo e delle burocrazie sindacali. Dopo cinquanta anni.
Rilanciare il conflitto sociale.
In questa difficile situazione il piano da privilegiare è quindi quello del conflitto sociale, con tutte le sue implicazioni politiche, sindacali, e organizzative. Da questo punto di vista assume un’importanza fondamentale la capacità di riunificare la nostra classe su obiettivi semplici e immediati, per tornare a vincere. Iniziamo a difendere i contenuti più estensivi della costituzione che derivano dalla resistenza armata al fascismo e dalle lotte del movimento operaio e sindacale, superando i prevalenti enunciati astratti, esigendo una concreta ed equa redistribuzione della ricchezza sociale prodotta, capace di migliorare le condizioni materiali delle classi subalterne. Una grande vertenza su salario, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, lotta al precariato, servizi sociali e previdenza. Sono questi gli obiettivi da contrapporre all’astratta difesa delle istituzioni borghesi.
07/08/2020
lotta di classe al tempo del corona virus

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L’italia con sessanta milioni di abitanti ed al vertice, insieme a Germania e Giappone, della classifica delle popolazioni più anziane, ha centocinquantamila posti letto nella sanità pubblica e quarantamila in quella privata. Complessivamente fra le strutture pubbliche e le strutture private, cinquemila sono i posti letto abilitati per la terapia intensiva. Oltre 3600 sono nelle strutture della sanità pubblica, mentre gli altri 1400 sono nelle strutture private convenzionate. Lo sforzo e l’obiettivo che il governo nazionale insieme alle Regioni, come si sa titolari della sanità pubblica e convenzionata, stanno mettendo in campo è quello di arrivare per fine di questo mese a disporre di 6100 posti letto. Se questi sono alcuni dati generali ciò che è necessario capire e su cui riflettere è per quale motivo ci stiamo tragicamente avvicinando a quel punto limite nel quale possono mancare posti letto di terapia intensiva. Stiamo concretamente rischiando di arrivare a porsi il dilemma di dover sceglier chi salvare (intubare) e chi no. Occorre ricordare inoltre che per ogni posto di terapia intensiva necessario a una persona in grave rischio di vita, bisogna avere, oltre alle attrezzature mediche, personale medico e infermieristico specializzato, secondo standard definiti di 12 medici e 24 infermieri per unità di 8 posti letto, oltre al personale non specializzato (OSS) e dei servizi generali . La logica privatistica introdotta nella sanità pubblica, l’estensione del concetto della competitività con il corrispettivo allargamento di quella privata, ha portato ad una costante ed ineluttabile riduzione di posti letto complessivi. Chiusure di Ospedali “minori” riduzione di presidi territoriali, applicazione alle ASL della stessa logica di centralizzazione e concentrazione del capitale privato manifatturiero, applicando alla sanità gli stessi approcci produttivistici come il just in time, la riduzione delle scorte, ecc.. come se la nostra salute fosse una merce qualsiasi. In italia siamo passati da oltre 10 posti letto per 1000 abitanti nel 1975 a 3,6 nel 2012 (ultimo dato disponibile) Ciò ha determinato che abbiamo un posto di terapia intensiva ogni cirva 11870 abitanti mentre in Germania abbiamo un rapporto di un posto letto ogni 3000 abitanti, essendo i posti letto complessivi di terapia intensiva 28000, oltre cinque volte di più dell’italia pur non essendo affatto e la popolazione tedesca il quintuplo degli italiani. Oltre a questa falcidia nel 2015 il Governo Renzi nel regolamento per gli standard ospedalieri definito con decreto (Decreto n70 del 02\04\2015) ha stabilito che un utilizzo medio dell’ 80/90 % dei posti letto durante l’anno deve essere ritenuto sufficiente. I Reparti di rianimazione quindi, in assenza di corona virus, sono quasi al completo . Ciò significa che dei circa 5000 posti letto nei Reparti di terapia intensiva quelli liberi per l’emergenza Covid-19 in realtà sono meno di un migliaglio a livello nazionale. Quindi basta che i pazienti di Covid-19 raggiungano il 10/20 % dei posti letto di rianimazione a disposizione per saturare i Reparti. Sappiamo che nei casi di corona virus rilevati, uno su cinque, sviluppa complicazioni polmonari serie o gravi e la metà deve essere ricoverato in terapia intensiva, pena una rapida morte per asfissia. Quindi uno su dieci ha bisogno di essere intubato. Dunque, il punto di crisi, in condizioni normali, della sanità italiana è di circa cinquantamila. Ipotizzando che il contagio da corona virus possa arrivare a cinquantamila (attualmente, mentre scriviamo queste note i dati disponibili dell’ infezione sono arrivati a oltre 20000) si saturerebbero completamente i posti letto disponibili e dopo questo numero chi dovesse avere un infarto, o un decorso post operatorio complesso rischierebbe di morire per assenza di trattamento idoneo. Inoltre lo stato dell’arte della sanità italiana è caratterizzata dalla mancanza cronica di medici e infermieri. In Italia mancano 10mila medici, 53mila infermieri e 70mila OSS e sono oltre 2mila tra medici e infermieri i contagiati durante le ore di servizio fino a questo momento. Non possiamo accettare che le necessarie misure di contenimento della malattia ricadano sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori così come sulle nuove generazioni di precari e precarie, lavoratrici e lavoratori autonomi. A fronte del divieto di mobilità, oramai sul tutto territorio nazionale ed alla chiusura delle attività commerciali ad esclusione delle filiere alimentari, non sono state fermate le fabbriche e gli altri posti di lavoro, non sono state organizzate al loro interno forme sufficienti di garanzia e protezione rispetto alla possibile epidemia del virus. I Padroni, attraverso Confindustria, hanno fortemente condizionato il governo per non arrivare al blocco totale della produzione. Questo ha determinato e sta determinando un crescendo di scioperi aziendali indetti da parte della maggioranza delle strutture sindacali tutte, dalla CGIL passando per la CISL e la UIL fino ai sindacati di base. La richiesta minima di queste agitazioni, che in alcuni casi stanno subendo gravi intimidazioni e repressioni, è quella di dotarsi di DPI (dispositivi di protezione individuale) fino alla giusta richiesta di non perdere salario o il lavoro a causa del corona virus. Lo stesso protocollo di sicurezza per i lavoratori siglato fra Confindustria e Organizzazioni Sindacali non rappresenta una soluzione effettiva in quanto il rispetto dello stesso protocollo viene demandato alle strutture aziendali. RSA, RSU ed RSL, non tenendo minimamente di conto, in maniera pilatesca, della situazione delle migliaia di picccole o piccolissime fabbriche e posti di lavoro non sindacalizzati o dove il ricatto padronale è forte o la dove queste realtà spesso lavorano dentro la fliera dell’aziende industriali più grandi e se noin si ferma la capofila non possono fermarsi nemmeno loro.
il diritto alla nostra salute viene prima del loro profitto
Occorre subito una forte assunzione di infermieri e Operatori Socio-Sanitari (OSS) e internalizzare stabilizzandoli, tutti i lavoratori precari della Sanità. Fare un grosso piano di assunzioni con bandi rapidi e agevolati. Occorre uno stanziamento di risorse straordinarie, anche attraverso una patrimoniale, per la garanzia dei posti di lavoro, compreso per i precari che lavorano negli appalti e per la copertura integrale del salario. E’ altresì necessario contrastare il tentativo di promuovere un nuovo clima di “unità nazionale”. Non è accettabile che in nome dell’ennesima emergenza si occulti le responsabilità della classe dominante e dei governi dei tagli e delle privatizzazioni alla sanità cosi come lo scadimento e la riduzione dei servizi. Occorre promuovere e sostenere tutte le mobilitazioni dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati vei disoccupati che c’erano e di quelli nuovi creati dall’emergenza sanitaria, per il lavoro e il reddito. Occorre trasformare questa gravissima e pericolosissima pandemia in un processo di unità e autonomia internazionale del movimemnto dei lavoratori nei confronti di tutti i governi, intenti esclusivamente a sostenere le classi dominanti e le rispettive borghesie nazionali preoccupate esclusivamente di non perdere quote di mercato rispetto ai competitori europei e/o mondiali. La motivazione di non fermare totalmente le produzioni ad esclusione dei beni di prima necessità come i generi alimentari e quelli farmaceutici risponde esattamente a questa insaziabile sete di profitto a scapito della stessa salute dei propri operai, confermando vieppiù l’assioma della produzione capitalistica e la sua sostanziale irrazionalità e la necessità di una società comunista e libertaria per non sprofondare nella barbarie.
I militanti e le militanti di Alternativa Libertaria/FdCA sono all’unisono accanto ed a sostegno delle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori, dei loro bisogni, della loro capacità organizzativa.
15/03/2020
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