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Dibattito

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Alcune note su Camillo Berneri

Da alcuni anni si ritorna a parlare del compagno anarchico Camillo Berneri, un intellettuale tra i più lucidi del '900, la cui elaborazione è stata colpevolmente rimossa dalla storiografia socialdemocratica e staliniana. Tra l’altro, questa positiva riconsiderazione si differenzia, per capacità critica, dalle tendenziose finalità proprie di altri tentativi di recupero delle nostre fonti, così come presero il via nei primi anni '70 del '900 all’interno del movimento anarchico italiano.

Allora si iniziò con la rivisitazione di Bakunin e in questo inizio fu subito abbastanza chiara una certa finalità antimarxiana, tendente all’omissione di quelle interpretazioni che presentavano un Bakunin critico nei confronti di alcune non secondarie formulazioni di Marx, e non certo come un anticomunista distruttivo nei confronti dell'intera elaborazione marxiana che anzi, in parte rivendicò e difese (vedi: F. Mehring: “Vita di Marx” – Roma 1976; P. Masini: “Il conflitto fra Marx e Bakunin in un'opera di Franz Mehring” in “Prometeo”, anno VII, serie II, n. 6 - marzo 1954; Gruppi Anarchici di Azione Proletaria – GAAP: “Lettura di Bakunin” 1950).

Ma dopo aver proseguito con alcuni studi e convegni ci si rese conto che il genere non consentiva simili forzature e, nonostante alcune affermazioni formulate anche da Berneri che qualifica sbrigativamente Bakunin come anticomunista nel senso del comunismo di Marx (Lettera a Piero Gobetti – 1926 in P. Masini – a cura di – “Pietrogrado 1917 – Barcellona 1937” Milano 1964), la trasformazione di Bakunin in un'icona antimarxiana non risultò una operazione credibile.

Allora, dopo aver tentato di riesumare per i medesimi scopi anche Malatesta e aver quasi del tutto ignorato Fabbri perché troppo indigesto, tali intenti “revisionistici” vennero alquanto moderati, forse perché ci si rese conto che rischiavano di alimentare proprio quel tendenzioso recupero di Proudhon, consumato nel 1978 dal segretario del Partito Socialista Italiano (PSI) Bettino Craxi per evidenti finalità anti berlingueriane, in un tradizionale scontro tra partiti parlamentari quando Enrico Berlinguer era segretario del Partito Comunista Italiano (PCI). (B. Craxi “Saggio su Proudhon” pubblicato dall’Espresso nel 1978).

Ma così come nell'affrontare Bakunin ci si ritrova inevitabilmente tra le mani Marx e la sua epoca, nell'affrontare Berneri s'incontra, in Italia, l'eclettico e ingombrante Gaetano Salvemini con Carlo Rosselli, Nello Rosselli e Ernesto Rossi al contorno; per non parlare poi di Antonio Labriola, Turati, Croce, Prezzolini e Papini, anche se questa è una storia un poco più articolata, per altro con Sorel sullo sfondo, nella quale si muove pure Gentile e, successivamente, anche Gramsci, Tasca e Gobetti, nello scenario nazionale di una borghesia resa alquanto incerta, divisa e inquieta a causa dell'arretratezza economica e industriale del paese, dell’irrisolta questione meridionale, del ruolo della Chiesa Cattolica e della tumultuosa ascesa del movimento operaio e contadino, delle sue organizzazioni politiche e di massa, nell'ambito della competizione capitalistica sui mercati mondiali e dell’ascesa dell’imperialismo che avrebbe prodotto, nel giro di poco più di un quarto di secolo, la prima guerra mondiale imperialista.

E' in questo scenario che si articola la vicenda dell'idealismo e dell’ascesa del positivismo in Italia certamente non agevolata, specialmente quest’ultima, dall'arretratezza economica del paese.

Questo è, molto schematicamente, il quadro in cui si determina anche lo sviluppo del marxismo in Italia nella fase pregiolittiana (dopo le cose cambieranno sensibilmente) sviluppo che, per alcuni dei suoi riferimenti idealistici e tardo positivistici, non dovrebbe essere sottovalutato neanche quando ci si occupa di Berneri, che dalle premesse di quel marxismo è invece abbastanza coinvolto almeno nelle origini del suo percorso politico, proprio quando quel marxismo finisce per essere assai distante dall'originale formulazione marxiana, rappresentandone una variante decisamente revisionista e borghese (in assenza di una valida alternativa politica parte della borghesia dell'epoca interloquiva volentieri con il marxismo di Turati) destinata comunque ad espandersi e a condizionare ulteriori elaborazioni.

Insomma: fai uscire Marx dalla porta e questo ti rientra dalla finestra, sia pure deformato in altre interpretazioni che dalla teoria marxiana si distaccano, magari fino a negarla in tutto o in parte e che, semmai, come nel caso di Salvemini e del suo meridionalismo socialista e federalista, finiscono per creare seguaci innumerevoli specialmente tra le giovani generazioni delle quali Salvemini fu, incontestabilmente, un maestro.

Anche Berneri fu come molti altri un allievo di Salvemini collocandosi, per questo, nel solco del Gramsci giovane anch'esso soggetto all'influenza di Salvemini, Croce, Prezzolini e la rivista “La voce”, da quest’ultimo fondata nel 1908.

Berneri, che già da adolescente aveva aderito al socialismo umanitario di Camillo Prampolini, si forma in questo articolato, eclettico e vivace enclave successivamente temprato dall’anarchismo e, infatti, proprio quel marxismo “borghese” rappresentato da Salvemini, che abbandonerà il PSI nel 1911 per fondare la rivista “l’Unità”, divenne il tramite culturale con il marxismo di Gramsci, con il liberalismo di Gobetti e con l'anarchismo di Berneri.

Se il marxista problematico Gramsci, antesignano della via nazionale al socialismo (tesi di Lione, 1926) è stato ingenerosamente usato come un’icona buona per tutti gli usi imposti dalla crisi del marxismo in Italia fino alla sua decomposizione nel comunismo nazionale di togliattiana memoria, alla quale il ruolo di Gramsci non può dirsi estraneo; se Gobetti, liberale ingombrante e problematico (per i liberali), è stato irriverentemente usato come inascoltato e inossidabile riferimento di un socialismo né marxista né marxiano ma socialista e liberale, da riesumare secondo ogni successiva necessità sopraggiunta credo che, prescindendo dai contesti ai quali mi sono molto schematicamente riferito, si rischi davvero, sia pure involontariamente, di finire per riesumare alla stessa stregua anche Berneri presentandolo come problematico (proprio come Gramsci e Salvemini), imbalsamandolo quale profeta inascoltato di un anarchismo critico e innovatore che comunque all’epoca non decollò (così come accadde, d'altronde, anche per il marxismo di Gramsci e per il liberalismo di Gobetti), proprio perché insidiato da ben altri letali nemici: il fascismo, lo stalinismo e la democrazia borghese, quali configurazioni politiche e istituzionali dello sfruttamento capitalistico.

Alcune componenti del nostro movimento si sono storicamente arrogate il diritto di conferire patenti di anarchismo in riferimento a elaborazioni critiche della dottrina da queste valutate, talvolta, alla stregua di eresie.

E’ indubbio che di queste pratiche squisitamente borghesi ne abbia fatto le spese anche Berneri, il quale era certamente consapevole che non bastava ritenersi anarchici per avere naturalmente ragione su tutto, e la considerazione è tanto più attuale proprio perché ci sono interpretazioni anarchiche che hanno sbagliato in tutto o in parte e altre, anche assai distanti dall'anarchismo che, invece, hanno avuto ragione su di una molteplicità di questioni.

Si tratta, più concretamente, di praticare il metodo dell'analisi materialistica, per stabilire in quale misura una elaborazione possa essere utile all’anarchismo in tutto, in parte o per nulla e, al riguardo, la critica politica anche se severa non può implicare scomuniche di sorta.

Berneri era un compagno anarchico, un militante politico tenace e un intellettuale rigoroso che cercava una via che consentisse all’anarchismo di rinnovarsi, per crescere e affermarsi. Questa sua tensione, che lo conduceva a ricercare riferimenti, interlocuzioni e stimoli anche fuori dall’anarchismo, rimase però in bilico tra le premesse teoriche di un marxismo revisionistico e quelle di un anarchismo che, nella ricerca di risposte alla sua indiscutibile crisi, per altro ampiamente sottovalutata anche da Berneri, finisce per rivolgersi alle medesime premesse idealistiche che già condizionarono Gramsci nella sua transizione al marxismo.

Entrambe queste interpretazioni, quella di Gramsci e quella di Berneri, si distaccano in tutto o in parte dalla concezione materialistica storica: il primo perché “meno marxista di Turati” (la definizione, ingenerosa ma obiettiva, è di Bordiga), il secondo perché il suo percorso politico nasce dal medesimo ceppo, sia pure temprato in senso anarchico. Ne consegue in Berneri una elaborazione eclettica, ricca di stimolanti enunciati e altrettante interlocuzioni; una lucida e originale ricerca non solo teorica ma anche militante del tutto legittimata dalle necessità indotte dalla crisi dell'anarchismo, ma troppo condizionata dalle premesse di un certo socialismo pre giolittiano dal cui enclave Berneri non si distacca del tutto proprio perché tali premesse non consentiranno di procedere oltre l'enunciato, inibendo ogni concreto e praticabile sbocco libertario. In questo senso Berneri non riesce a contrastare la crisi dell’anarchismo che è crisi di prospettiva teorica, strategica e organizzativa.

Sia pure apprezzando gli studi che fin qua si sono succeduti, credo che il recupero dell’elaborazione di Berneri perché, alla fine, di recupero si tratta, non possa che essere assunto che come un'ulteriore conferma della necessità di un aggiornamento dell'anarchismo conferma che, in quanto tale, non è però sufficiente per affrontare con efficacia la fase che si sta prospettando con tutte le sue inedite implicazioni né, tanto meno, la crisi dell'anarchismo in una prospettiva di risoluzione.

Non ritengo quindi che l'anarchismo possa trarre giovamento da un recupero dell'elaborazione di Berneri (e allora perché non di Salvemini, Gramsci e di Gobetti, per non parlare di Croce?) il quale, come altri insigni teorici, appartiene certamente alla nostra storia, ma bisogna fare chiarezza. Da questo punto di vista, l’elaborazione di Berneri è già ampiamente superata dalle medesime dinamiche dell’epoca nella quale si sviluppò e, come il “gramscismo” e il “gobettismo”, non può che essere sottoposta a una critica che ne evidenzi tutti i limiti e i ritardi.

Giulio Angeli, dicembre 2015