Alternativa Libertaria/Federazione dei Comunisti Anarchici

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Il Punto

 

Sul Referendum costituzionale del 29 marzo 2020

di Giulio Angeli

Prima di iniziare una riflessione sulla fase in atto è necessaria una breve premessa sul COVID-19, assurto alle cronache come “corona virus”. Senza entrare nel merito della così detta epidemia e delle sue complessità, è interessante notare che in prima linea c’è la sanità pubblica con tutte le sue strutture centrali e periferiche e, soprattutto, con il suo personale medico, paramedico, ausiliario, tecnico e amministrativo, a tempo indeterminato e precario, comunque impegnato a fronteggiare con spirito di abnegazione e con risorse limitate dai molteplici tagli al sistema sanitario già sconvolto dai processi di privatizzazione che ne hanno ridotto l’efficienza, l’insorgere e il diffondersi del virus: la sanità privata è semplicemente assente perché non è finalizzata alla pubblica utilità ma solo ed esclusivamente alla realizzazione del profitto. E’ questa una indicazione strategica che dovrebbe essere recepita in primo luogo dalle forze di resistenza del movimento sindacale le quali, anziché impegnarsi contro il taglio dei parlamentari dovrebbero rivedere i loro diffusi connubi e le subalternità ai processi di privatizzazione che dovrebbero invece essere efficacemente contrastati con una vertenza unitaria e di massa per la difesa e il rilancio dello stato sociale.

Invece si pensa al referendum sul taglio dei parlamentari che si celebrerà il 29 di marzo.

Ci risiamo: l’ennesimo referendum inutile che per altro costerà agli italiani circa 300 milioni di euro, quando i problemi sono altri”; “Il taglio è una decisa risposta politica alle critiche e alle esigenze dei cittadini; non mutila la democrazia e non aiuta l’antipolitica”. “Limitare il numero dei parlamentari è limitare l’espressione dei cittadini. Il NO è chiamato ancora una volta a difendere la Costituzione e la democrazia”. Ecco in estrema sintesi, alcune posizioni correnti circa il prossimo referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. Argomento controverso che da qualunque punto di vista lo si affronti appare obiettabile. C’è da dire che, se il paragone viene fatto con i comuni cittadini, i parlamentari assumono ingiustificate posizioni di privilegio economico, normativo e di status sociale a cui consegue una scarsissima efficienza delle istituzioni parlamentari che, quando operano, lo fanno spessissimo per comprimere gli interessi delle classi subalterne a esclusivo vantaggio delle classi e fazioni capitalistiche in generale il che, se associato all’elevato numero di pregiudicati, inquisiti, prescritti e mestieranti della politica che siedono in parlamento, crea disappunto e rabbia tra la categoria dei rappresentati che si allontanano sempre più dalle istituzioni statali e dal terreno della partecipazione democratica e rappresentativa, fino a sposare posizioni decisamente qualunquistiche che facilmente degenerano in un antiparlamentarismo autoritario, anticamera della reazione. Ma non è possibile ovviare a tutte queste degenerazioni della democrazia (borghese), spesso inevitabili proprio in quanto costituiscono il prodotto di una transizione storica che vede le istituzioni parlamentari al sevizio delle classi possidenti, diminuendo il numero dei parlamentari senza perseguire disegni demagogici e reazionari. In realtà, l’intento è un altro: quello di aprire le istituzioni parlamentari solo a quelle candidature forti, e potremmo anche dire occulte, al fine di limitare la rappresentanza e la democrazia costituzionale, accelerando le derive autoritarie che percorrono dal profondo la società: il che, effettivamente spaventa. Da questo punto di vista le ragioni del No al taglio dei parlamentari suonano meglio di quelle demagogiche del SI, anche se sono caratterizzate dall’innegabile difetto di lasciare le cose come stanno per quanto riguarda le degenerazioni concrete e evidentissime della pratica reale della democrazia parlamentare. Circa l’indistinta categoria dei cittadini elettori c’è da dire che di questi, nel segreto dell’urna, chi voterà SI lo farà per lo più reattivamente, proprio perché nel NO individua la difesa delle “status quo” che detesta. E’ una reazione se vogliamo “nichilista” ma che trova la sua concretezza nel fatto che per votare NO è necessario svolgere un ragionamento un poco sofisticato e astratto dai condizionamenti del reale, e interi settori di popolazione votante non lo svolgono. E’ quindi presupponibile che, ribaltando lo scenario e i risultati del referendum costituzionale del dicembre del 2016 contro la riforma Renzi – Boschi, questa volta prevalga il SI. Ma cosa devono fare i rivoluzionari e i comunisti anarchici in queste situazioni?

La prima cosa da fare è contestualizzare.

In questi ultimi cinquanta anni, dopo la legge 352 del 1970 che applicava il dettato costituzionale, la stragrande maggioranza delle materie sottoposte a referendum non hanno riguardato, o non riguardano più, la difesa delle condizioni di vita e degli interessi delle classi subalterne come ad esempio accadde per i referendum sul divorzio (1974), sull’aborto (1981) e per altri versi per quello sulle centrali nucleari (1986) e sull’acqua pubblica (2011), vinto e mai applicato, comunque tutti sostenuti da forti, radicati e consapevoli movimenti di massa, il che non si è verificato nelle altre scadenze referendarie ad eccezione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 (monarchia o repubblica) che con la percentuale dell’89,1% registrò la più alta partecipazione al voto. In totale dal 1946 ad oggi vi sono stati n. 1 referendum istituzionali; n. 1 referendum di indirizzo; n. 3 referendum costituzionali (quello del prossimo marzo sarà il quarto); n. 67 referendum abrogativi; per un totale di n. 72 scadenze referendarie effettuate: una vera e propria inflazione. Si è così definita una vera e propria scorciatoia che ha istituzionalizzato, depotenziandola, l’azione di massa e di classe avviandosi verso una prassi referendaria autoreferenziale e intrecciata con le dinamiche istituzionali, che ha illuso e illude che queste ultime possano essere plasmabili dal suffragio universale, e dalla partecipazione “popolare” e interclassista, replicando quanto già affermarono Marx e Engels nel lontano 1852 e che non ci stanchiamo di ripetere:

Cretinismo parlamentare, infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l'onore di annoverarli tra i suoi membri, e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio, - guerre, rivoluzioni, costruzioni di ferrovie, colonizzazione di interi nuovi continenti, scoperta dell'oro di California, canali dell'America centrale, eserciti russi, e tutto quanto ancora può in qualsiasi modo pretendere di esercitare un'influenza sui destini dell'umanità,- non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all'importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l'attenzione dell'onorevole loro assemblea”.

(Engels "Rivoluzione e controrivoluzione in Germania" 1851 – 1852)

Ora sbaglierebbe chi ritenesse le sopraddette considerazioni come ideologiche. Questo è, francamente, un trito luogo comune per giungere a conclusioni precostituite, quando le sopraddette considerazioni sono in realtà gravide di concretezza storica in quanto quello referendario è un terreno fragilissimo e insidioso da usare quindi con grande cautela proprio perché tende a coinvolgere l’astratta categoria delle elettrici e degli elettori, chiamando al voto strati sociali che perseguono interessi di classe diversificati e talvolta avversi (vedi il referendum del giugno del 1985 sul taglio dei punti della scala mobile, referendum proposto dall’allora PCI e sostenuto dalla maggioranza della CGIL e clamorosamente perso). Viceversa, il piano del conflitto sociale che trae consenso dalla difesa degli interessi materiali delle classi subalterne è ben più solido e suscettibile di replicarsi nel corso della storia, anche in circostanze avverse. Facciamo un esempio per evidenziare quanto il “cretinismo parlamentare” sia una categoria tutt’altro che astratta ed anzi ben rappresentata in quantità e qualità:

  1. Piano della politica.

Si consideri il Partito democratico e le sue esperienze di governo. Il referendum costituzionale del dicembre del 2016, che prevedeva “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari” secondo la riforma Boschi – Renzi, fu vinto dallo schieramento di opposizione al governo Renzi che, invece, ne fu promotore: in quell’occasione i No stravinsero, raggiungendo il 59,1% contro i SI che si attestarono al 40,9%. E’ interessante evidenziare un dato universalmente rimosso: essendo stata la percentuale dei votanti del 65.5% i NO vinsero con una percentuale assoluta pari al 38,7 degli aventi diritto. Alle elezioni Europee del 2014 il partito democratico ottenne il 40,8% dei voti (percentuale dei votanti pari al 57,22%) mentre alle elezioni europee del 2019 lo stesso partito democratico avrebbe ottenuto il 22,84% (-18,07%) su una percentuale dei votanti pari a 54.5%.

Al prossimo referendum costituzionale è legittimo supporre un risultato dei SI suscettibile di ribaltare il precedente successo dei NO.

Se alla conferma di questa ipotesi si associa il crollo del PD alle ultime elezioni Europee e che consistenti fluttuazioni di voto riguardano molte forze politiche, si descrive la fragilità del sistema referendario ormai troppo distante dai movimenti di massa, dal conflitto di classe e inevitabilmente condizionato dalle schermaglie parlamentari. La crisi della politica è, in realtà, crisi di consensi sociali: le alleanze elettorali e politiche pesano non tanto e non solo per il numero dei voti che raccolgono, quanto per le alleanze sociali e di classe che sono in grado di esprimere. Alleanze sociali stabili consentono politiche organiche; alleanze sociali fragili determinano fluttuazioni e improvvisazioni elettorali con tutte le conseguenze del caso, come sta accadendo nel teatrino della politica parlamentare.

 

  1. Piano del conflitto di classe.

Il 20 maggio del 1970 viene approvata la Legge n. 300, meglio nota come “Statuto dei lavoratori”. Non è questa la sede per affrontare i contenuti della legge e certamente può essere detto che essa interpretò al ribasso il grande ciclo di lotte e il protagonismo di classe degli anni ’60 del ‘900 e che, obiettivamente, di quelle lotte consentì il parziale recupero ma, non ostante i suoi limiti e ritardi, lo Statuto dei Lavoratori avrebbe certamente costituito una grande conquista del movimento operaio e sindacale nell’Italia di quegli anni: una conquista strappata con lotte unitarie, dure e capillari alla classe padronale che a distanza di 50 anni non ha ancora smesso di fargli la guerra.

Si potrebbe obiettare che lo Statuto dei Lavoratori fu possibile per l’opera del precedente ministro del lavoro il socialista Giacomo Brodolini (ex sindacalista CGIL) e del ministro del lavoro del governo allora in carica, il democristiano Carlo Donat Cattin (ex sindacalista CISL); dell’azione parlamentare dei partiti di opposizione (PCI, PSIUP) che, pure, votarono in pratica contro lo “Statuto”. Ma tutte quelle azioni politiche fondamentali costituirono non l’origine ma la conseguenza che il conflitto aveva determinato sul padronato e sulle istituzioni borghesi che, sia pure temporaneamente, erano state costrette a cedere sotto la pressione di durissime lotte unitarie che in taluni casi avevano scavalcato anche il sindacalismo confederale.

Ecco perché, a differenza della politica parlamentare e alle sue alterne vicende fragili e talvolta effimere, così profondamente caratterizzate da “cretinismo parlamentare”, lo Statuto dei Lavoratori, quale conseguenza del conflitto di classe, dura ancora oggi e continua a turbare i sonni del padronato, del parlamentarismo e delle burocrazie sindacali. Dopo cinquanta anni.

Rilanciare il conflitto sociale.

In questa difficile situazione il piano da privilegiare è quindi quello del conflitto sociale, con tutte le sue implicazioni politiche, sindacali, e organizzative. Da questo punto di vista assume un’importanza fondamentale la capacità di riunificare la nostra classe su obiettivi semplici e immediati, per tornare a vincere. Iniziamo a difendere i contenuti più estensivi della costituzione che derivano dalla resistenza armata al fascismo e dalle lotte del movimento operaio e sindacale, superando i prevalenti enunciati astratti, esigendo una concreta ed equa redistribuzione della ricchezza sociale prodotta, capace di migliorare le condizioni materiali delle classi subalterne. Una grande vertenza su salario, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, lotta al precariato, servizi sociali e previdenza. Sono questi gli obiettivi da contrapporre all’astratta difesa delle istituzioni borghesi.