Quaderni di COMUNISMO LIBERTARIO

Mezzo secolo di lotta della classe operaia mondiale (1900 – 1950)

Prefazione

Sono passati circa venti anni da quando pubblicammo la “Piccola Enciclopedia Anarchica”, un testo all’epoca sconosciuto ai più, anche all’interno dello stesso movimento anarchico. Se torniamo a sottoporre il medesimo testo all’attenzione delle compagne e dei compagni non è per autoreferenzialismo ma per la raggiunta consapevolezza secondo la quale nelle situazioni di crisi a venir meno è, talvolta, anche la capacità di elaborare collettivamente. L’elaborazione collettiva procede oltre l’elaborazione individuale che non sottovalutiamo, consentendo la definizione delle necessarie prospettive strategiche e delle coerenti articolazioni tattiche e organizzative, per conferire alla teoria rivoluzionaria concretezza e credibilità nella realtà che ci circonda. Questi concetti, ce ne rendiamo conto, corrono il rischio di apparire antiquati, ma se per elaborazione collettiva si intende lo sforzo di ricomporre esperienze e contributi in una spinta risultante capace di incidere efficacemente sui rapporti tra capitale e lavoro nel senso dell’emancipazione delle classi subalterne, la prospettiva non è antiquata ma, semmai, molto difficile. È, infatti, un lavoro faticoso, lento e quindi impegnativo che pone al suo centro la militanza politica e la conoscenza approfondita della realtà che si intende affrontare, conoscenza per la quale è necessario individuare i contesti storici di riferimento. Tornare quindi a parlare di storia significa ripercorrere in termini di bilancio critico e autocritico le fasi della lotta tra le classi, le vittorie e le sconfitte la cui comprensione ci può consentire oggi di avviare una ripresa dell’azione politica rivoluzionaria. La riedizione della “Piccola Enciclopedia Anarchica” trova ragione di essere anche in occasione della pubblicazione dei primi due volumi dell’opera “GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE”, edito dalla BFS EDIZIONI e da Edizioni PANTAREI che documenta l’esperienza dei Gruppi Anarchici d’Azione Proletaria (GAAP) tramite le disponibilità delle fonti di archivio, dato che il materiale fino ad oggi a disposizione era costituito da riferimenti alquanto dispersi. Un plauso quindi ai curatori e agli editori che, con la loro fatica, hanno apportato un fondamentale contributo non solo alla ricostruzione della storia del movimento anarchico, ma alla conoscenza di una delle esperienze politicamente più stimolanti dal secondo dopoguerra ad oggi, qual è stata quella dei GAAP. Ma, a ben guardare, anche prima di questa fondamentale acquisizione resa possibile dall’apertura dell’archivio Masini, l’elaborazione dei GAAP aveva già assunto un preciso punto di riferimento per alcune minoranze militanti volte a individuare, restaurare e riproporre i punti fondanti dell’intera esperienza, nella più generale condizione di crisi dell’intera identità rivoluzionaria e, in particolare, dell’anarchismo italiano e internazionale, per come andò configurandosi nel secondo dopoguerra, in un quadro imperialistico inedito. Questa crisi è colta con precisione dalle elaborazioni dei GAAP, che individuano nelle discontinuità organizzative dell’anarchismo le premesse del suo mancato rinnovamento e il suo non risolversi, per oltre mezzo secolo, in una teoria e in una prassi organica della rivoluzione. E’ una tesi questa che genera obiezioni innumerevoli all’interno del movimento anarchico che, in generale, ha esorcizzato e rimosso le ragioni profonde della sua medesima crisi, ostacolando l’affermarsi di un’impostazione critica nella ricostruzione della sua medesima storia. Non è quindi, quello dei GAAP, un semplice “ritorno ai dettami della Prima Internazionale”, ma un tentativo teso alla revisione dell’anarchismo nella piena considerazione della sua crisi, con profonde implicazioni in teoria, strategia, tattica e organizzazione. In questo senso i GAAP hanno ben presente, e fin dall’inizio del loro percorso, la concreta realtà dei rapporti di forza tra capitale e lavoro all’epoca esistenti e non si rivolgono mai a un "grande pubblico", ma a componenti militanti limitate e ben individuate, con cui impostare un’interlocuzione per la costruzione dell’organizzazione politica degli anarchici, secondo la metodologia bakuninista, che si concreta nel concetto di “minoranza agente” e di “dualismo organizzativo”. Un percorso questo che, per i suoi contenuti qualitativi, si differenzia da quello testimoniale posto in essere dal movimento anarchico storico e, per altre vie, da numerose minoranze rivoluzionarie anche attuali. Un percorso quello dei GAAP inevitabilmente politico, orientato a rivolgersi alla classe rivoluzionaria nella sua dimensione concreta e non per come “si ritiene che sia o come avrebbe dovuto o potuto essere”, secondo le aspirazioni e le prefigurazioni dei rivoluzionari. Quindi i GAAP si presentano alla classe materialisticamente: si presentano alla classe com’è, nel preciso contesto storico della fase capitalistica in atto; si presentano per quello che realmente sono e, soprattutto, non sentono assolutamente l’esigenza di tentare di essere in ogni loro pronunciamento “complessivi” e, quindi, “più rivoluzionari degli altri”. La pubblicazione della “Piccola Enciclopedia Anarchica” non è quindi semplicemente uno sfoggio di conoscenza ma sorge dall’esigenza di formare politicamente la “minoranza agente”, quel tessuto militante inevitabilmente minoritario ma con il compito ineliminabile di articolare la strategia rivoluzionaria per il superamento del capitalismo. In questo senso la “Piccola Enciclopedia Anarchica” costituisce una ricostruzione essenziale e chiarissima dei 50 anni cruciali che dall’affermarsi delle tendenze imperialistiche giungono fino al secondo dopo guerra, e costituisce anche un contributo unico nel suo genere, ineguagliato e, soprattutto, di grande attualità formativa, un contributo attualissimo che rivolgiamo alle compagne e ai compagni che non si accontentano delle ricognizioni sui social che, coltivate talvolta con superficialità, non realizzano ma dissolvono ogni consapevolezza di classe impedendo l’elaborazione collettiva e replicando il primato dell’azione individuale e disorganizzata.

Settembre 2018

Alternativa Libertaria/FdCA


LE RAGIONI DI UNA SCELTA EDITORIALE

I giganteschi processi di ristrutturazione hanno profondamente mutato l'assetto capitalistico internazionale, definendo nuovi equilibri economici, politici e sociali che, nel loro manifestarsi, hanno sorpreso la sinistra in uno stato di profondo ritardo, d'impotenza e di confusione.

Nei paesi a capitalismo maturo l'offensiva del capitale ha sconfitto il movimento operaio e sindacale, rinnovando la supremazia della borghesia capitalistica e di tutti i suoi tenacissimi miti che si concretano nel tentativo, purtroppo riuscito, di spacciare il capitalismo come il migliore dei sistemi possibili.

A ben guardare, anche lo stalinismo italiano ha efficacemente concorso a sostenere un simile disegno, poiché ha seguito la metamorfosi del capitalismo di stato sovietico e l'evoluzione della sua forma politica, fino all'accettazione del modello capitalistico privatistico occidentale.

Anche lo "strappo" di berlingueriana memoria non costituì una novità nello stitico panorama del comunismo nazionale italiano, ma l'inesorabile continuità con lo stalinismo, o meglio con la sua crisi irreversibile, poiché rappresentò il tentativo intrapreso dal gruppo dirigente del PCI, di riacquistare autonomia rispetto all'imperialismo sovietico, ormai indebolito dallo scontro con l'imperialismo USA e non più difendibile.

In Italia, lo stalinismo aveva coerentemente ceduto il passo a quel comunismo nazionale di togliattiana memoria al quale Berlinguer e l’intero gruppo dirigente del PCI si uniformarono con gran subalternità e conformismo, sia pure ostentando una notevole abilità tattica.

Al riguardo gli annali dell'internazionale Comunista ricordano il comunista statunitense Earl Browder e il suo scomunicatissimo saggio dal titolo "Theran and America".

Egli aveva percorso i tempi anticipando, fin dal 1943, quelli che in Italia sarebbero divenuti i temi della propaganda togliattiana e berlingueriana: il partito integrato nel sistema capitalistico e nella realtà nazionale che rinunciava all'edificazione socialista per la collaborazione di classe con la borghesia.

Argomenti analoghi avrebbero sostenuto l’intelaiatura della lenta e sottile trama attraverso la quale si è giunti al comunismo nazionale del PCI, al PDS, ai DS, a Rifondazione Comunista, ai Comunisti Italiani e al Governo Prodi ed al Governo D'Alema e Cossutta.

Per il gruppo dirigente del PCI l'intento autentico era quello di ricontrattare una posizione di forza con l'imperialismo italiano ed internazionale, e lo "strappo” che ne seguì si configurò come una scelta obbligata: il compromesso storico, l'unità nazionale, il coinvolgimento del movimento operaio e sindacale nel rilancio dell'economia nazionale a difesa dell'imperialismo italiano sui mercati internazionali, sono fenomeni che convergono verso il vecchio obiettivo togliattiano di dare al comunismo nazionale italiano una dignità di governo.

Ma l'afasia del dibattito e dell’iniziativa politica inevitabilmente conseguente a simili scelte, non è una prerogativa esclusiva dell’ampia enclave di derivazione comunista nazionale: ciò rimanda ad un ampio retroterra di lacune avente caratteristiche teoriche e strategiche, che mai fu colmato, e che riemerge oggi sotto il rincalzare degli avvenimenti, accompagnato dalla drammatica caratteristica dell'opportunismo che impone di giungere sempre in ritardo ad ogni nuova scadenza.

Può darsi che qualche compagno non gradisca l'uso di quest’ultimo sostantivo, ma oltre la sua deformazione leniniana vi è il fatto che esso ben descrive il clima, per così dire culturale, che si è andato costituendo nell'ampio enclave della sinistra in Italia laddove, pare, non esservi più lo spazio per le analisi politiche. Cresce la necessità di fornire formule praticistiche aventi come fine di sostenere, in tutto o in parte e a seconda delle opportunità e del tornaconto di questa o quella compagine borghese o forza politica e istituzionale, la dimensione imperialista del capitalismo italiano. La necessità di far pagare ai lavoratori dipendenti i nuovi assetti previdenziali, conseguenti ai costi della pensione interclassista storicamente pagata dai lavoratori italiani per gli interessi elettorali dei partiti politici parlamentari, è chiamata "solidarietà con le nuove generazioni. L’attacco al salario viene chiamato "abbassamento del costo del lavoro per ridare competitività all'economia nazionale" e la partecipazione al bombardamento delle popolazioni civili nei Balcani "ingerenza umanitaria". È allora del tutto comprensibile come, in questa precisa situazione di sbandamento e di confusione, si facciano strada i tentativi più coriacei di mistificare la storia per adattarla ai rinnovati interessi del capitale, tacendo del tutto su altre analoghe vicende già drammaticamente vissute da intere generazioni di militanti.

La sinistra rivoluzionaria non deve tacere lasciandosi magari trasportare dagli stati d'animo, così come troppo spesso accade e continua ad accadere, ma deve ricordare e recuperare, restaurare, in taluni casi revisionare e comunque riproporre il patrimonio storico della sua originale identità antagonistica e di classe. Siamo d’altronde consapevoli che i problemi della sinistra rivoluzionaria italiana non potranno essere risolti con un semplice ritorno ai valori della "I Internazionale", non solo perché troppo tempo è passato dall’epoca della sua costituzione ma soprattutto perché le operazioni "sostituzioniste" lasciano ormai il tempo che trovano ed è francamente mistificante pretendere di ritrovare nella storia tutte le indicazioni per progredire nel presente. La considerazione e la riconsiderazione di fasi qualificanti la storia del movimento operaio internazionale, è solo uno dei fondamentali elementi con il quale costruire un nuovo programma politico rivoluzionario che ci consenta di affrontare l'assetto capitalistico internazionale e la sua evoluzione. E' necessario cioè iniziare a fornire risposte teoriche, strategiche, tattiche ed organizzative all'evoluzione dello scontro di classe.

E' proprio per questo motivo che intendiamo sottoporre all'attenzione dei compagni un'elaborazione non nostra, largamente ed irresponsabilmente ignorata: le prime due dispense della Piccola Enciclopedia anarchica (PEA), elaborata collettivamente nel 1950 dai compagni dei Gruppi Anarchici d'Azione Proletaria (GAAP), con l'intento di tracciare sinteticamente il profilo di una fase storica cruciale, che dalla fine del secolo XIX giunge fino al 1950, al fine di fissare i punti fermi per la costruzione di un’opposizione politica anticapitalistica, che individuasse nell'anarchismo di classe la sua fondamentale premessa teorica.

Lo sforzo dei compagni estensori della dispensa era assai più ambizioso: essi intendevano realizzare un'opera storico-critica, non solo su di una fase cruciale quali sono i primi cinquanta anni del secolo ventesimo, ma anche indagare su alcune vicende fondamentali di quel ciclo capitalistico quali la prima guerra mondiale imperialista, l'internazionalismo e la rivoluzione russa, la guerra di Spagna, il fenomeno fascista, la guerra e la resistenza, unitamente all'analisi dei nuovi equilibri mondiali conseguenti alla fine della seconda guerra mondiale nella fase imperialista.

Il tentativo era evidentemente quello di porre solide basi storiche e teoriche sulle quali iniziare a sistematizzare l’anarchismo, per evolverlo da movimento d'opinione a teoria e prassi della rivoluzione sociale.

Inutile dire quanto quest'intendimento fosse pertinente alle esigenze di formazione di una solida consapevolezza di classe del proletariato italiano in generale, ed in particolare del movimento anarchico, che attraversava nell'immediato secondo dopoguerra una fase di crescita quantitativa non indifferente.

Sono gli anni nei quali il movimento anarchico rappresenta l'unica opposizione rivoluzionaria non minoritaria, che pretende di chiarire il ruolo controrivoluzionario della socialdemocrazia e dello stalinismo; un'opposizione con solide radici di classe e con presenze espressive nel movimento proletario e sindacale, un’opposizione con una storica presenza nelle tappe più espressive del proletariato italiano ed internazionale ma, contemporaneamente, un'opposizione ipotecata da lacune, errori e ritardi ai quali non faceva riscontro, con la dovuta tempestività ed efficacia, un'azione di restauro della teoria ed una selezione di quelle esperienze realmente qualificanti da un punto di vista rivoluzionario e di classe, per separarle dalla confusione ideologica ed organizzativa caratterizzante il movimento anarchico italiano ed internazionale.

Di questo si accorgono i compagni dei GAAP, i quali fin dal 1947 iniziano a scontrarsi con la componente antiorganizzatrice, individualistica e interclassista dell'anarchismo (da loro efficacemente definita "nullista”), al fine di perseguire una scelta di consapevolezza e di responsabilità, tendente a formare una giovane generazione di militanti, la stessa giunta all'anarchismo dalla cospirazione antifascista, dalla lotta partigiana, dall'aspro scontro di classe caratterizzante la ricostruzione post bellica e la rinascita della democrazia borghese in Italia.

Si trattava di riconoscere e significare il distacco tra teoria e strategia rivoluzionaria comunista anarchica con le altre varie correnti dell'anarchismo; divaricarlo ulteriormente per giungere ad una vera e propria separazione, che liberasse la componente rivoluzionaria dai vincoli "nullisti" e borghesi presenti nei movimento, avviandola su di una strada propria. Certo che questo processo necessitava di una revisione e di un recupero critico di quelle significative esperienze del movimento operaio che non si riconnettevano direttamente all'anarchismo, poiché per i compagni dei GAAP appariva chiaro che era l'intera vicenda proletaria a comprendere, giustificare e legittimare la presenza di una teoria e di una prassi anarchica nello scontro di classe, e non viceversa.

LA PICCOLA ENCICLOPEDIA ANARCHICA

MEZZO SECOLO Dl LOTTE DELLA CLASSE OPERAIA MONDIALE (1900 - 1950)

I tratti caratteristici dell'elaborazione dei GAAP sono costituiti dal costante riferimento alla lotta di classe e all'utilizzo di una metodologia di indagine materialistica che individua e combina dialetticamente i vari aspetti oggettivi e soggettivi della dinamica storica: "minoranza agente, masse in movimento, congiuntura di crisi". L'elaborazione si divide in due sezioni:

  • la prima tende a descrivere le caratteristiche dell'evoluzione del processo di produzione capitalistico, così com'è andato configurandosi dalla fine del secolo diciannovesimo;

  • la seconda prosegue affrontando la fase rivoluzionaria del primo dopoguerra fino al fascismo e alla seconda guerra mondiale.

In particolare i GAAP individuano nell'evoluzione imperialista del capitalismo la fase destinata a mutare l'intero assetto a livello nazionale ed internazionale, con proiezioni profonde sulle configurazioni economiche, sociali, politiche e culturali. Proseguono poi con l'analisi del fenomeno rivoluzionario che caratterizza il primo dopoguerra e la rivoluzione bolscevica. Segue l'analisi del fenomeno fascista e nazionalista, dedicando molto spazio allo studio critico e non conformista del ruolo della III Internazionale Comunista, sul quale cresce l'analisi della controrivoluzione leninista prima e stalinista poi, e l'analisi dell'URSS quale sistema economico e sociale caratterizzato da rapporti di produzione capitalistici. Una breve ma non generica analisi della "rivoluzione e controrivoluzione in Spagna" precede l'avvincente conclusione che descrive l'ascesa dei nuovi partiti comunisti stalinisti che si riciclano aderendo alle loro peculiari realtà nazionali.

L'efficace sintesi di cinquanta anni di lotta di classe proposta dai GAAP, intende sostanziare la consapevolezza che l'anarchismo nasce e si sviluppa sulla necessità di progettare la costruzione di una società alternativa al mercato capitalistico ed allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, per recuperare, restaurare e riproporne la spinta al superamento del capitalismo la quale, sia pure fisiologica ad ogni lotta rivendicativa, è destinata a disperdersi ciclicamente se non viene raccolta e riproposta dalla "minoranza agente". Ecco perché. i compagni dei GAAP rilanciano con forza la necessità della formazione di un tessuto militante comunista anarchico, che all'interno dello scontro sociale definisca i punti fermi in materia di teoria e strategia, sui quali edificare un'organizzazione politica che consenta agli anarchici di intervenire nella realtà dello scontro sociale e di radicarsi in essa. E' proprio nel perseguire questo loro fondamentale obiettivo che essi giungeranno, inevitabilmente, allo scontro con l'ala antiorganizzatrice del movimento anarchico, favorevole alla qualificazione dell'anarchismo in senso educazionistico ed alla sua evoluzione in "movimento d'opinione".

ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI SULL'ESPERIENZA DEI GAAP

La vicenda dei GAAP, per quanto breve, assume comunque un significato che non può essere separato dal suo epilogo che si risolve, dopo il 1957, in scelte politiche che nulla più avranno in comune con l'anarchismo, e che si concretano nell'adesione al Partito Socialista Italiano d'alcuni suoi militanti, oppure nell'assimilazione alla settaria vicenda della sinistra comunista e, in generale, al leninismo.

Appare oggi indubbio come i compagni dei GAAP sopravvalutassero il ruolo del "nullismo" del movimento anarchico e della sua deriva “resistenzialista”.

(dal documento "Resistenzialismo piano di sconfitta", redatto dai GAAP nel 1950 per contrastare l'insorgere delle influenze educazionistiche tipiche dell'anarchismo statunitense e che stavano attecchendo anche nel movimento anarchico Italiano. Tali posizioni, privilegiando l'azione individuale e le capacità di resistenza dell'individuo, negavano ogni implicazione di classe ed ogni altra soluzione organizzativa, risolvendosi in una dimensione collaterale al liberalismo).

In quella fase, in Italia, il movimento anarchico era nel suo complesso una forza ancor viva ma ormai declinante, adagiata com'era sulla rendita di posizione derivante dal suo importante passato rivoluzionario, e tale inerzia agevolava la penetrazione di quelle posizioni resistenzialiste che i compagni dei GAAP tenteranno di arginare.

Se, quindi, l'azione che i giovani compagni dei GAAP tentano di svolgere all'interno della FAI poteva anche essere giustificata da necessità tattiche, il ruolo resistenzialista e educazionista che stava rapidamente contaminando l'anarchismo non consentiva di certo ampi spazi di manovra all'intento minoritario dei GAAP di spostare la FAI, e quindi l'intero movimento anarchico, su posizioni organicamente classiste ed organizzatrici.

I GAAP, specialmente dopo il fallimento dell'esperienza interna alla FAI culminata con il loro successivo allontanamento, inizieranno a riproporre la teoria marxiana quale scienza definita e compiuta del processo rivoluzionario illudendosi, con questa scelta certamente ortodossa e revisionistica, di poter arginare le tendenze nulliste dell'anarchismo.

Complessivamente quindi, nonostante elaborazioni, spunti, intuizioni positive e stimolanti, che pure compaiono nella PEA e ne costituiscono il principale motivo di considerazione non vi è, nell'intera esperienza dei GAAP, un approccio critico alla teoria marxiana, proprio quando paradossalmente tale approccio andava consolidandosi in ambiti marxisti non ortodossi. (Si consideri al riguardo, e tra le altre, l'elaborazione del marxista Tedesco K. Korsch).

Così, come in troppi intenti marxisti, anche nell'intera esperienza dei GAAP, la consapevolezza che il gran contributo realizzato da Marx, introduca e non esaurisca la necessità di definire una teoria scientifica del processo di produzione capitalistico sfuma completamente, per lasciare spazio ad un tentativo di costruire "una scienza esatta della rivoluzione", secondo la frusta tradizione del revisionismo socialdemocratico e leniniano.

La fondamentale elaborazione marxiana è quindi lentamente, ed inesorabilmente, equiparata a "scienza compiuta", quando invece essa non conclude un percorso di ricerca ma lo inizia, concedendo a quest'inizio una base solida e antagonistica al pensiero borghese.

Sarebbe stato necessario continuare a sviluppare la critica alla società capitalistica, critica che già appartenne a Marx, recependo il suo più genuino intento tendente alla definizione di un modello scientifico d'indagine della realtà, assieme ad un progetto complessivo di superamento del capitalismo e d'edificazione comunista della società.

I GAAP ricalcheranno quindi i limiti delle principali deviazioni marxiste: una carente emancipazione dai contenuti dell'economia classica, la sopravvalutazione del ruolo dello stato nel processo rivoluzionario, l'ambiguo concetto di dittatura del proletariato, il determinismo economico, il disprezzo e la sottovalutazione del sottoproletariato, la pretesa della teoria marxiana, in quanto scienza organica e compiuta, di egemonizzare il passato, il presente ed il futuro del processo rivoluzionario.

Pressati da necessità organizzative ed incalzati all'intemo del movimento anarchico dall'agguerrita componente antiorganizzatrice, ed all'esterno dall'azione controrivoluzionaria dello stalinismo, nella più vasta cornice di un'ampia offensiva capitalista al proletariato italiano, i GAAP non riusciranno a fornire un progetto credibile di restauro dell'anarchismo; un progetto che attingesse, certamente, dall'ambito teorico e metodologico delle originali formulazioni marxiane, ma che ne ponesse ben in evidenza i numerosi punti di caduta.

Sarebbe quindi un errore riproporre oggi la traccia fissa di una simile esperienza, ma contemporaneamente è necessario avvertire in essa quella tensione costruttiva verso una concezione organica dell'anarchismo di classe, liberato dalle sue implicazioni, metafisiche, individualistiche, aclassiste e antimaterialiste.

Lo sforzo rivitalizzante compiuto dai GAAP, sia pure inficiato dai molti limiti predetti, e che individua nella PEA uno dei risultati più qualificati, produrrà in ogni modo elementi di sorprendente chiarezza ed attualità, che devono essere recuperati e portati a conoscenza dei compagni.

In definitiva gli anarchici di classe avrebbero dovuto sistematizzare, anziché rifiutare acriticamente (spostandosi inevitabilmente, sul terreno del leninismo, dell'azionismo, della socialdemocrazia e del liberalismo), gli elementi fondanti delle formulazioni marxiane, acquisendo una rinnovata consapevolezza circa l'elaborazione di Bakunin e d'altri teorici anarchici la quale, laddove si dimostra brillante ed attuale, è caratterizzata proprio da un'adesione (peraltro dichiarata), all'elaborazione marxiana. Bakunin accetta infatti la sistematizzazione realizzata da Marx, ma la reinterpreta assumendola e scomponendola, per sottoporla poi a critica impietosa, per scoprire, additare e sopprimere le implicazioni controrivoluzionarie in lei presenti.

Un lavoro certamente proficuo, ma incompiuto e non sistematizzato: in Bakunin non si sarebbe mai strutturato quel metodo d'analisi rigoroso che invece caratterizzò l'intera opera di Max. Ecco che, allora, la critica di Bakunin alla teoria marxiana appare sagace e costruttiva, ma saltuaria, contraddittoria e largamente incompiuta.

Bakunin getta in questa storica polemica tutta la sua energia di vecchio militante rivoluzionario, rilevando con estrema chiarezza, come dietro all'apparente solidità delle formulazioni marxiane si celi tutta la loro fragilità, ambiguità e incompiutezza, consapevole che esse dovevano, nella loro sostanza essere difese quali elementi fondanti di una teoria e di una prassi rivoluzionaria.

Nessun altro avrebbe svolto un ruolo così importante: non lo avrebbero svolto i marxisti, non lo avrebbero svolto gli anarchici.

Nonostante i molti errori gli anarchici hanno comunque insegnato al proletariato mondiale che la transizione ad una società comunista implica aspetti soggettivi e sovrastrutturali differenziati tra individui, culture e aree geografiche, aspetti che finiscono per essere determinanti nella transizione rivoluzionaria, interpretando così in modo limpido il concetto marxiano del rapporto tra struttura e sovrastruttura economica.

Ma gli anarchici hanno insegnato anche, con il loro sanguinoso sacrificio e a differenza di molte scuole marxiste, che i mezzi impegnati nel superamento del capitalismo devono, sempre, essere all'altezza di quest'obiettivo, e che non si realizza nessun progetto rivoluzionario con mezzi e metodologie che tirano da un'altra parte.

Coerentemente oggi, per disincagliare le forze motrici di questo progetto, abbiamo bisogno di conoscere ed interpretare l'evoluzione del sistema di produzione capitalistico e, in esso, del proletariato e della lotta di classe, per definirne l'essenza rivoluzionaria ed aggiornarla rispetto alle necessità dell'attuale fase imperialista, recependo lo schema già utilizzato dai GAAP: "minoranza agente, masse in movimento, congiuntura di crisi".

Le pagine che seguono, e che sottoponiamo all'attenzione dei compagni, indicano ancora oggi l'ambizioso ma attualissimo intento di fornire una ricostruzione organica di cinquanta anni di scontro sociale, non per riproporre pedantemente il passato ma per costruire su di esso un'opposizione di classe al capitalismo: un'opposizione organizzata, cosciente e rinnovata nell'elaborazione teorica, tattica e strategica, un'opposizione che non si disperda, capace di lasciare tracce profonde nelle generazioni future.

Aprile 1999

Giulio Angeli

della Redazione di

COMUNISMO LIBERTARIO

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PICCOLA ENCICLOPEDIA ANARCHICA   dispensa 1

A cura del Gruppo d’iniziativa “PER UN MOVIMENTO ORIENTATO E FEDERATO”
Prima edizione 1950 – Stabilimento Tipografico Soc. p. Az. La Tribuna – Via Milano 70 – Roma

gaapcon

Edizione Comunismo Libertario Giugno 1999

1) I protagonisti del secolo.

L'anno millenovecento non solo decreta la fine del secolo decimonono e l'inizio del secolo ventesimo, ma con l'andare del tempo, acquista sempre più la figura di un anno contabile che chiude un bilancio storico e ne impianta uno nuovo.Grosso modo col 1900 cala un sipario su tutta un'epoca, sui suoi costumi, sulla sua civiltà, sui suoi personaggi.Altri protagonisti  si affacciano alla ribalta, si incontrano al quadrivio del secolo nuovo.Il capitalismo che era stato il grande e spigliato attore dell'Ottocento appesantisce i suoi movimenti, aggrava la sua condotta e le sue colpe, ingigantisce nella sua estrema e mostruosa rappresentazione: l'imperialismo.
L'imperialismo - che ebbe i suoi scopritori in uomini tanto della destra socialdemocratica come R. Hilferding, O. Bauer e K.Kautsky quanto della sinistra socialdemocratica come R. Luxemburg e N. Lenin - è un fenomeno connesso alla massima concentrazione dei capitali prodottasi al principio del secolo con un graduale crescendo: dai singoli capitalisti-imprenditori alle società di capitalisti (anonime), dalle anonime alla consociazione di imprese della stessa branca (cartelli) , dai cartelli alla fusione di imprese  omogenee  in  superimprese  (trusts) , dal trusts al consorzio di   industrie  complementari   e interessanti lo stesso ciclo produttivo (combinate); ed in una fase ancora superiore dal cartelli, dai trusts, dalle combinate alla loro estrema concentrazione sotto l'egida di alcune banche monopolizzatrici del capitale finanziario, e quindi all'accentramento di tutta l'economia sotto il controllo diretto o indiretto di alcuni gruppi capitalistici insediati nello stesso apparato statale.
Questo è l'imperialismo. Esso costringe in un involucro d'acciaio gli interessi di pochi e potenti gruppi capitalistici di una stessa nazione, dopo averli ridotti ad unico assoluto comun denominatore: lo stato nazionale imperialista. In tal modo i numerosi contrasti interni dell'economia capitalista che erano culminati in talune fortissime scosse all'interno di ogni stato, vengono a loro volta concentrati, totalizzati e sfogati interamente sul piano dei conflitti internazionali fra stati imperialisti. Di qui la politica di pirateria mercantile, di qui la politica doganale ed autarchica, dl qui la lotta per le materie prime; di qui le guerre imperialiste per la ripartizione del mondo. Infatti se l'età moderna aveva visto dopo le guerre di religione, le guerre dinastiche (tipiche le guerre di successione) del Seicento e del Settecento con prolungamenti nell'Ottocento (guerre a fondo precapitalistico combattute per un trono o per una provincia) , se l'età contemporanea aveva assistito in Italia, in Germania, nei Balcani, nelle Americhe alle guerre nazionali (guerre d'indipendenza, guerre d'unificazione, guerre a fondo capitalistico-borghese), se i tempi a noi più recenti dovevano registrare numerose guerre coloniali (guerre di stati borghesi capitalistici contro paesi non organizzati in regimi statali moderni oppure organizzati in regimi feudali),  ecco che ora entrava negli annali della storia un tipo nuovo, inedito di guerra : la guerra imperialista.
Le guerre imperialiste si definiscono come guerre fra stati capitalisti nazionali sovrani per la ripartizione del mondo.Essendosi ormai costituiti ovunque nel mondo stati nazionali  sovrani, essendosi il capitalismo vittoriosamente affermato nella maggior parte di questi stati, essendosi pure conclusa la fase "pacifica" della corsa di questi stati alla divisione della abbondante preda coloniale ecco che- per mancanza di altre terre "disponibili" su cui piantare la bandiera insanguinata dello sfruttamento - le aree degli stati moderni vengono a contatto, a frizione, a conflitto diretto : conflagrano.
Abbiamo presentato il primo attore, l'imperialismo, nella sua più drammatica interpretazione: le guerre imperialiste. Ma le guerre imperialiste non sono solo l'unico logico sbocco della precedente fase di accumulazione del capitale finanziario; esse rappresentano anche un momento di crisi, e nell'organizzazione unitaria del capitalismo mondiale sconvolto nei suoi rapporti e nel sistema di ogni potenza belligerante indebolita dallo sforzo in caso di vittoria, lacerata nei suoi istituti fondamentali in caso di sconfitta. D'altra parte in corrispondenza  all'accentuarsi della concorrenza sul piano internazionale verso l'egemonia assoluta da parte di uno stato nazionale sovrano in lotta contro tutti gli altri, e indipendentemente dallo sbocco  armato di questa lotta, si sviluppa, come abbiamo già visto, all'interno di ogni stato un parallelo processo di concentrazione: processo che tende a rafforzare la compagine statale impegnata nella giungla dell'imperialismo tramite una ammortizzazione delle contese fra gruppi capitalistici interni ed un loro incatenamento verso obiettivi di espansione  imperialistica all'esterno, sotto il segno dello stato nazionale totalitario. Questo processo come provoca una maggiore tensione lungo i confini degli stati, così suscita una maggiore pressione lungo le frontiere di classe all'interno: accende la crisi.
Entra in scena un secondo importante protagonista: la crisi. Frattanto, in tutto il mondo si è andato accumulando un proletariato attivo e cosciente. Lo sviluppo della grande industria ed il proporzionale addensarsi di grandi masse demografiche nei centri urbani, i movimenti migratori, la leva militare obbligatoria, il suffragio universale, le vaste organizzazioni di mestiere, il progresso dei mezzi di comunicazione delle idee: tutti questi fattori collegati allo sviluppo del capitalismo sollevano all'ordine del giorno della storia, dopo l'imperialismo, dopo le crisi, un terzo quadrato protagonista: le masse.
Se l'Ottocento era stato il secolo degli eroi e delle èlites, il Novecento sarà il secolo delle masse: delle masse operaie e contadine che sotto mille urti vengono strappate alla loro  indifferenza  e alla loro inerzia, per mille strade vengono sospinte nel vortice della vita associata, convogliate nella storia, educate alla associazione, avviate alla lotta. Perfino lo stato moderno mobilitando e provocando gli strati più profondi delle masse, inconsapevolmente genera e moltiplica i suoi nemici, ne eccita la volontà di riscossa, ne evoca le forze segrete, ne risveglia gli impulsi che finiranno per rivoltarglisi contro ed abbatterlo. Ad un certo momento lo stato ha tentato di imprigionare queste forze minacciose: con le scuole, i partiti, i parlamenti, le chiese, le caserme, i campi di concentramento. Invano. Ad ogni suo tentativo fallito corrispondeva l'entrata di più grandi masse nel circuito delle lotte politiche ed economiche. Infatti anche le masse, come l'imperialismo, non sono qualcosa di statico, ma qualcosa di dinamico. Se l'imperialismo in convulsione si chiamava crisi, le masse in movimento si chiamano rivoluzione. La rivoluzione è il quarto ed ultimo protagonista del secolo.
Essa è ben diversa dall'omonimo personaggio del secolo precedente cospirante nelle soffitte  e  ritto sulle barricate. La rivoluzione dell'Ottocento era opera di una minoranza, isolata dalle masse, astratta dalla situazione in cui operava.I movimenti di questa minoranza erano improvvisi e sconnessi, non maturati da una situazione e non sincroni ad essa, non collegati alla agitazione delle masse. Nel Novecento invece mentre permane l'istanza di una minoranza agente, ereditata dall'Ottocento, due nuovi fattori sopravvengono vincolati all'atto rivoluzionario: la partecipazione delle masse operaie delle città e delle masse contadine della campagna, la congiuntura di crisi nelle compagini nazionali e nel sistema internazionale dell'imperialismo. Sotto questo aspetto è enunciabile la proposizione: che le rivoluzioni stanno alle crisi nella stessa misura che le masse stanno all'imperialismo. Nella rassegna dei fatti vedremo come questa tesi trovi rispondenza nella realtà.

2) Episodi rivoluzionari legati alle prime manifestazioni dell'imperialismo.

L'epoca imperialista, cioè l'epoca in cui tutte le annose questioni diplomatiche della vecchia Europa vengono superate e fuse nella Weltpolitik, si annuncia esattamente venti anni dopo che il Congresso di Berlino del 1878 aveva consumato la spartizione politica del continente nero,   ultimo continente sul quale restavano ancora  a quella data spazi aperti ed ipotecabili.
Infatti proprio nel 1898 abbiamo la guerra ibero-americana, prima piccola guerra dell'epoca imperialista, scoppiata fra due stati nazionali sovrani, il più vecchio ed il più giovane stato colonialista, per il conteso possesso di Cuba e delle Filippine. L'avvenimento, provocando una preoccupante penuria di grano in Europa. suscitò moti in Italia ed in Spagna: moti che hanno non poco pesato sulle ulteriori vicende di questi paesi (il "novantotto ").
Imperialismi e masse, crisi e rivoluzioni fecero così la loro comparsa. Il secolo che sta per nascere e che si fa annunciare dalle cannonate di tutte le potenze civili contro la Cina, ce ne farà meglio afferrare l'importanza.
Scorrendo infatti le cronache dei primi quindici anni del Novecento (1900-1914) tre episodi risaltano in tre distinte zone d'Europa presentando caratteristiche comuni: la rivoluzione russa del 1905, l'insurrezione spagnuola del 1909, i moti italiani del 1914. Questi avvenimenti stanno tutti e tre in stretta relazione alle prime manifestazioni dell'imperialismo, cioè ai prodromi "locali" delle grandi guerre imiperialiste, si tratti della guerra russo-giapponese, dell'impresa marocchina o del conflitto italo-turco per la Libia (cui sono, cronologicamente e logicamente, ben connessi i moti italiani del '14 ).
In tutti e  tre i casi   abbiamo contemporaneamente esplosioni di rivolta antimilitarista con uso della forza militare da parte del proletariato in armi, delle realizzazioni di sciopero  generale nelle grandi città collegate ad agitazioni  nelle  campagne; in tutti e tre i casi abbiamo come prologo una serie di azioni individuali (attentati) e di azioni collettive (scioperi) e come epilogo la sconfitta e la repressione, determinate oltrechè da elementi subbiettivi (insufficiente grado di organizzazione ed insufficiente livello di orientamento politico) da limiti obiettivi come la ridotta misura della crisi, circoscritta sempre all'ambito nazionale ed il conseguente esaurimento in loco dell'atto rivoluzionario.

LA RIVOLUZIONE RUSSA

La  guerra russo-giapponese, iniziata nel febbraio 1904 e terminata il 5 settembre 1905 con la sconfitta della Russia, fu in sostanza una piccola, bilaterale, circoscritta guerra imperialista accesasi fra le due potenze in seguito a scontro dei loro interessi da tempo in movimento in una zona contesa: la Manciuria.
I contraccolpi del pessimo andamento che avevano preso fin dall'inizio le operazioni militari (sconfitte di Liao-Yang, Port Arthur; quindi di Mukden e Tsushima)   si ebbero nella capitale Pietroburgo col "sabato di sangue" (22 gennaio 1905): una manifestazione popolare a fondo patriottico-realista che voleva interpretare in una petizione allo czar il malcontento delle plebi non solo per la guerra ma soprattutto per la miseria il servaggio l'umiliazione in cui esse da secoli giacevano. Centinaia di morti lasciò davanti al palazzo dello czar, il corteo, ritraendosi sotto il fuoco della fucileria cosacca. Seguirono gli ammutinamenti (clamoroso quello dell'incrociatore Potiemkin, nel giugno), gli scioperi (soprattutto quello ferroviario dell'ottobre), le rivolte agrarie (nelle provincie del Centro e del Volga). Ma doveva esser Mosca a segnare il diapason della rivoluzione che serpeggiava ed ingigantiva in tutta la Russia.
Dal 20 al 30 dicembre gli operai di Mosca si batterono contro l'esercito regolare, occupando importanti posizioni strategiche nella città e cedendo solo di fronte al bombardamento dell'artiglieria, diretto contro il quartiere proletario di Presnia, centro della sollevazione.
Anche in altre citta della Russia la divampata rivolta fu estinta nel sangue. Gli anarchici russi che solo all'inizio del secolo avevano dato vita ad un movimento organizzato in Russia (nell'Ottocento malgrado Bakunin e Kropotkin che esercitarono la loro massima influenza in Occidente, l'anarchismo in Russia fu soprattutto movimento di costumi) ebbero nel 1905 il battesimo del fuoco a Jitomir, Bialystok, Mosca, Pietroburgo, nella lontana Georgia ed il battesimo della persecuzione nelle prigioni della Siberia.
Così finiva la rivoluzione russa non senza aver provocato qualche sommovimento nei paesi confinanti: in Austria, Turchia, Persia e Cina. Ma di essa restava soprattutto, oltre alle concessioni costituzionali ben presto ritrattate dallo czar, una potente lezione impartita al proletariato dagli avvenimenti di cui esso era stato il protagonista.

LA INSURREZIONE SPAGNUOLA

Dopo l'incidente di Fascioda (1898) ed il conflitto diplomatico fra Francia ed Inghilterra che tendevano entrambe a tagliarsi la strada al centro dell'Africa, la zona cruciale africana nella quale vengono a scontrarsi gli interessi europei, minacciando di accendere l'inevitabile conflagrazione, si sposta a Nord, nel Marocco.Questa regione fu dallo sbarco del Kaiser a Tangeri (1905) al colpo di Agadir (1911) al centro dell'attenzione delle cancellerie europee.                                                                                             
Antagonisti la Francia e la Germania e dietro tutte le altre potenze, la Spagna in testa. Di contro le tribù indigene, avendo buon giuoco fra gli opposti appetiti ed intrighi, inghiottivano nel Rif uomini e capitali in quantità. Era una guerra coloniale complicata dal conflitto diplomatico fra imperialismi.
Frattanto in Spagna dove negli anni precedenti le masse avevano dato visibili segni d'insofferenza, si ridestavano con l'opposizione alla guerra marocchina, i fermenti sociali, federalisti, laici, anarchici, repubblicani altre volte attivi.Fu nel luglio 1909 che, in seguito a reiterati richiami alle armi di riservisti, la cui partenza per oItremare era in ogni modo ostacolata dalla popolazione, e sotto l'impressione di gravi notizie su rovesci militari al Marocco, Barcellona  rispose alla guerra con lo sciopero generale (26 luglio 1909). La polizia sconfitta nel tentativo di frenare lo sviluppo vittorioso dello sciopero invocò l'intervento dell'autorità militare: fu lo stato d'assedio, fu la guerra civile. Nei giorni dell'insurrezione l'ira popolare si riversò soprattutto sulle chiese e sulle caserme, simboli  della dominazione   clerico-monarchica  in Spagna, incendiandole. Alla mattina del 28 luglio i ribelli erano già padroni assoluti della città: ma la generale impreparazione, la mancanza di un piano difensivo ed offensivo, la scarsa coscienza degli obiettivi da raggiungere, la disorganizzazione delle masse condannarono il movimento  ad  esaurirsi, mentre a Barcellona (come a Mosca) le artiglierie piazzate sul forte dl Montjuich, che i rivoluzionari avevano trascurato di occupare o di distruggere, decidevano la partita.
La restaurazione fu feroce: massacri indiscriminati di passanti, decimazioni di cittadini e di opeai presi a caso, insanguinarono per alcuni giorni la città. Dopo che la rivolta fu domata anche negli altri centri della Catalogna, si inizò la vendetta legalizzata dei processi: massimo tra essi quello contro Francisco Ferrer, completamente  estraneo al moto, che terminò con la condanna a morte del fondatore della scuola moderna (13 ottobre 1909).

I MOTI ITALIANI DEL 1914

La impresa libica fu la vera prima avventura oltremare del giovane imperialismo italiano che negli anni della "vigilia" si era andato consolando con abbondanti sfoghi letterari degli insuccessi politici e militari del precedente regno: e aveva meditato la rivincita.Il conflitto italo-turco fu piuttosto che una guerra coloniale, una vera e propria piccola guerra imperialista fra il vecchio  impero ottomano   ed  il giovane stato italiano.
Ma la guerra, malgrado le defezioni nel partito repubblicano già anti-africanista per tradizione, ed i tradimenti in campo socialista e sindacalista, provocò sensibili reazioni fra le masse lavoratrici che espressero il loro risentimento in gesta collettive (sciopero del 27 settembre 1911, manifestazioni successive contro la partenza dei soldati, solidarietà con i libici fatti impiccare dai comandi militari italiani) od in atti individuali (attentato dell'anarchico Antonio D'Alba contro il sovrano: 14 marzo 1912). Anche nell'esercito si ebbero sintomi di questo malcontento con gli episodi Masetti e Moroni: il primo una recluta che aveva sparato contro il suo colonnello al momento della partenza per la Libia (30 ottobre 1911), il secondo un soldato refrattario che aveva fatto parlare di se sulla stampa sovversiva.
In seguito a questi fatti le autorità militari credettero di poter instaurare con le "compagnie di disciplina" un regime di terrore nelle caserme. Ma intorno ai nomi di Augusto Masetti e di Antonio Moroni - l'uno detenuto a Montelupo e l'altro a San Leo - si iniziò, soprattutto per merito degli anarchici, una vasta agitazione di solidarietà, mentre in parlamento e soprattutto in occasione della campagna elettorale del 1913, la lotta politica si polarizzava pro o contro la guerra libica che, chiusa diplomaticamente, continuava ad esigere uomini, armi fondi per fronteggiare l'indomabile resistenza dei ribelli.
Si giunse cosi al 1914, e propriamente alla prima domenica di giugno del 1914, festa dello Statuto ma anche giornata prescelta per grandi manifestazioni pro Masetti e pro Moroni e contro le compagnie di disciplina. La manifestazione si svolse pacificamente in molte città.Solo ad Ancona, dove  anarchici e repubblicani avevano organizzato un grande comizio a Villa Rossa, l'intervento della forza pubblica provocò la morte di tre giovani  (un anarchico, un repubblicano, un senza-partito) e il ferimento di altre cinque persone. Poichè ilI fatto, già grave per le sue proporzioni e per il suo carattere provocatorio seguiva ad una serie di eccidi che avevano insanguinato durante l'età d'oro (1900-1914) le piazze Italiane, venne proclamato lo sciopero generale ad oltranza. Lo sciopero prese subito un carattere insurrezionale soprattutto nelle quattro provincie di Ancona, Pesaro, Forli, Ravenna (che erano state negli anni precedenti "lavorate" dal Malatesta e che potevano contare su un rilevante contributo di parte repubblicana). Per una settimana queste quattro provincie, per l'assalto a banche, a granai, a ville, per l'interruzioni dei telegrafi, telefoni, linee ferroviarie, per l'occupazione di municipi stazioni caserme (furono fatti prigionieri anche un generale ed alcuni ufficiali superiori) rappresentarono l'epicentro della lotta mentre le grandi città della penisola erano teatro di violenti scontri fra polizia e popolo armato.
Ma l'indecisione dei capi riformisti come Treves e Turati che poi daranno triste spettacolo con deplorazioni vili e ridicole, la manifesta fellonia di dirigenti confederali come Rigola e D'Aragona  che troncarono lo sciopero in perfetta sincronia con la reazione governativa proprio mentre esso poteva rovesciare la situazione (stava per divenire esecutivo anche il proclamato  sciopero del ferrovieri), l'insufficienza politica dei socialisti rivoluzionari e dei sindacalisti, la mancanza di un piano d'azione. l'intervento dell'esercito e della marina, frustrarono l'iniziativa delle masse.La fiammata insurrezionale sfumava su uno scuro orizzonte sul quale stava per esplodere, di lì a pochi giorni, il grande conflitto mondiale.

CRITICA

Il fallimento dei moti rivoluzionari del primo quindicennio del secolo si spiega soprattutto con la evidente debolezza dei tre coefficienti rivoluzionari: crisi "locale" dell'imperialismo, insufficiente partecipazione  delle masse operaie  e contadine, scarsa consistenza, scarso orientamento, scarsa organizzazione della minoranza-agente.
In primo luogo l'imperialismo è scosso da crisi limitate nel tempo e nello spazio, crisi di crescenza: i suoi conflitti, seppure tesi non più alla spartizione ma alla ripartizione del mondo, si concludono sul piano della politica d'equilibrio, tramite l'intervento mediatore di grandi potenze arbitre (pace di Parigi fra Stati Uniti e Spagna, pace di Portsmouth fra Russia e Giappone, lodi arbitrali sulla questione marocchina, pace di Ouchy fra Italia e Turchia), ma non sovvertono questo equilibrio, non terminano, ad esempio, con l'invasione del paese nemico e con l'impiccagione dei vinti. Sopratutto queste crisi colgono gli imperialismi più deboli: la tarlata autocrazia russa, l'instabile stato Italiano, il decrepito reame di Spagna: corrodono gli anelli più deboli della catena imperialistica, non le maglie più grosse e robuste.
In secondo luogo le masse pur essendo divenute un elemento rilevante non sono ancora un fattore preponderante, decisivo. In Russia, in Italia ed in Spagna non esiste ancora un forte proletariato industriale: e le masse contadine dell'Ucraina, dell'Andalusia e del Mezzogiorno italiano restano in gran parte assenti dalla lotta.
In terzo luogo l'arretrato sviluppo economico di questi paesi non ha maturato la formazione di una classe operaia e contadina omogenea. Esiste un conglomerato eterogeneo che va dalla plebe alla piccola borghesia ritardataria, dal proletariato industriale a strati socialI indifferenziati. Questa eterogeneità non può che riprodursi nel fronte rivoluzionario che essa esprime:  in Russia, in Spagna, in Italia si trovano affiancati anarchici e socialdemocratici, sindacalisti e repubblicani, radicali laici e democratici di sinistra. In Russia sono presenti liberali, in Italia mazziniani, in Spagna massoni. Non esiste in realtà una centrata minoranza-agente ma una intesa  genericamente progressista ed  ovviamente transitoria tra gruppi politici d'estrema.
Il tipo ibrido di rivoluzione che ne vien fuori non ha un indirizzo anarchico, socialista, di classe. In Russia ci si batte per la Duma, per la costituzione per un regime democratico parlamentare; in Spagna per il federalismo, per la repubblica, per lo Stato laico; in Italia per la repubblica (in alcuni paesi della Romagna vennero inalzati alberi della libertà, in altri vennero abbattute le insegne monarchiche). Anche se il proletariato fu all'avanguardia di tutti questi moti, anche se nel corso di essi vennero agitate parole d'ordine socialiste, la natura dei fatti non cambia: in caso di successo i risultati non sarebbero andati oltre la liberalizzazione del regime in Russia, la cacciata del re in Italia il ritiro delle truppe dal Marocco e l'estromissione dei gesuiti in Spagna. Perchè questo era il carattere di quelle rivoluzioni: ed i più avvertiti fra i rivoluzionari ne furono coscienti. Nonostante ciò essi si gettarono nella mischia perchè scorsero degli elementi decisamente positivi in quella esperienza. Quella esperienza mostrava infatti come a differenza degli anni precedenti non fossero più dei terroristi isolati che si portavano in avanti interpretando la volontà delle masse, ma fossero queste masse stesse o larghi settori di esse che avanzavano interpretando direttamente in azioni concrete la loro volontà di riscossa e di liberazione; e come queste stesse masse operando dal basso riuscissero a strappar concessioni che nè i moniti dei terroristi nè le interpellanze dei parlamentari erano riusciti ad ottenere.Quella esperienza provava ancora come non bastasse trasformare questo sciopero parziale in sciopero generale, non bastasse trasformare lo sciopero generale in sciopero generale ad oltranza: occorreva trasformare lo sciopero in rivolta e la rivolta in insurrezione armata: per la prima volta le masse, superando il mito dello sciopero generale, prendevano coscienza di questa necessità.Quella esperienza infine strappava la maschera alla socialdemocrazia ed al sindacalismo riformista e ne denunciava alle masse il continuato tradimento, indicava ai lavoratori come l'azione parlamentare non costituiva  un  dato complementare  dell'azione diretta ma la sua denegazione preventiva.

3) Il sindacalismo: sue correnti e sue esperienze.
 
L'anno millenovecento fra i tanti avvenimenti registra anche la celebrazione a Parigi di due contemporanei ed irreconciliabili congressi operai internazionali: uno socialdemocratico ed uno anarchico (quest'ultimo interrotto per l'intervento della polizia). Il processo di separazione tra anarchici e socialisti iniziatosi con la prima Internazionale, non spento negli anni "80, ripreso e continuato all'interno della seconda Internazionale (congressi di Parigi, Bruxelles, Zurigo, Londra) e all'interno di ogni singolo partito nazionale, aveva ormai generato due distinti movimenti.
Ma accadeva molto spesso che il movimento socialista internazionale avesse dei ritorni d'anarchismo e delle nostalgie per alcuni motivi già cari all'anarchismo: ora in Olanda con il Socialistenbund di Niewenhuis (più tardi anarchico), ora in Francia con gli allemanisti, ora in Germania con gli Jungen, ora in Inghilterra con la Socialist League di William Morris, ora in Russia con i massimalisti staccatisi dal partito socialista rivoluzionario, ora in Polonia con i machajevtsy (dallo pseudonimo Machajskj del rivoluzionario Volskj) ed infine in tutti gli altri paesi con le ali sinistre del socialismo. Accadeva anche che fossero le destre stesse di questi partiti ad accusare, in molti casi ingiustificatamente, di "anarchismo" i loro oppositori di sinistra.
L'improprietà e l'inopportunità di questa accusa risultava evidente con il graduale inserimento   dei partiti socialisti nella democrazia borghese: inserimento che non faticava a spostare dal loro estremismo verbale e letterario molti dei più fieri rivoluzionari come Briand in Francia e Ferri in Italia .A ciò si aggiunga in campo teorico l'opera tenace del revisionismo che andava spianando uno ad uno i capisaldi della dottrina marxista che avessero potuto ergersi a contrasto della nuova prospettiva parlamentare.Così ben presto i partiti socialisti perdettero la loro fisionomia sovversiva, si trasformarono in vasti mercati di voti e di facili posizioni, in autentici stagni della vita sociale nei quali rifluivano e perdevano empito le giovani generazioni operaie ed in cui invece ben vegetavano, come in un grande vivaio, nuovi interessi di deputati e di giornalisti, di avvocati e di sindaci, di consiglieri e di capi lega, di dirigenti di cooperative e di agenti elettorali.
Contro questa progrediente degenerazione si alza ben presto la voce non più delle "sinistre" che avevano finito per adattarsi ad una cointeressata complicità nel giuoco, ma di manipoli sempre più aggressivi di oppositori che prendono il nome di "sindacalisti rivoluzionari" o semplicemente di "sindacalisti". Per capire i motivi prossimi o remoti di questa denominazione occorre tornare un po' indietro e ricordare l'origine dei sindacati.
I sindacati operai (aggiungiamo "operai" perchè si dissero sindacati anche certi tipi di trust industriali e certe organizzazioni di capitalisti per la difesa comune dei loro interessi contro le rivendicazioni degli operai) furono in origine delle associazioni di resistenza fra lavoratori e la loro nascita data dalla metà del secolo decimonono. Con la prima Internazionale abbiamo la prima organizzazione politica di leghe o aggruppamenti operai a carattere  economico (ed anche politico-economico). Dopo la fine della prima Internazionale le organizzazioni economiche cominciarono a distinguersi da quelle politiche: e verso la fine del secolo mentre sul terreno politico si sono costituiti e consolidati i partiti politici (socialisti), sul terreno economico abbiamo:
a) sindacati operai rossi collegati, pur nella loro autonomia organizzativa, ai partiti socialisti e soprattutto all'ala riformista di questi partiti;
b) sindacati operai bianchi o gialli influenzati da cattolici, liberali, repubblicani di  destra o comunque soggetti al paternalismo reazionario;
c) sindacati operai puri, cioè indipendenti da ogni vincolo con partiti politici.
I sindacati rossi talvolta escono proprio dal seno dei partiti socialdemocratici come in Italia o nel Belgio, tal'altra vedono i loro dirigenti aderire alla socialdemocrazia e quindi porre il sindacato sotto la sua stessa tutela. Essi hanno la loro centrale e soprattutto il loro modello nei Gewerschaften tedeschi, sorti e sviluppati all'ombra del grande partito di Guglielmo Liebneckt e di Augusto Bebel (a Berlino ebbe sede il Segretariato Internazionale dei Sindacati costituito nel 1902). Ma si affermano ben presto anche in Austria ed in Ungheria, in Belgio ed in Olanda, in Svezia ed in Norvegia. In Italia dove nel 1893 si era costituita la Federazione delle Camere del Lavoro trasformatasi poi in Segretariato Generale della Resistenza l'apparato sindacale riformista ha la sua consacrazione al congresso di Milano dell'ottobre 1906 quando, dopo aspri contrasti con la minoranza sindacalista rivoluzionaria, fu fondata la Confederazione Generale del Lavoro con un programma esplicitamente riformista e con una struttura centralizzata. Tutte queste organizzazioni sindacali costituivano di fatto lo strumento di collaborazione economica con la borghesia ed erano state svuotate di ogni pericoloso contenuto classista dai partiti socialdemocratici, impegnati ad una parallela collaborazione politica. Anche in Inghilterra dove il problema si poneva in modo un po' diverso, le Trade Unions costituivano una copia del Partito Laburista quando non avveniva l'inverso che cioè il partito laburista si riducesse ad appendice delle potenti Trade Unions. Ancora più a destra si erano intanto già imposti, fin dalla fine del secolo, i sindacati bianchi e gialli. I sindacati cattolici, nello spirito dell'enciclica Rerum Novarum e sotto l'impulso di religiosi come il vescovo Ketteler in Germania o il padre Rutten nel Belgio, si erano affermati soprattutto in questi due stati. Ma anche in paesi cattolico-protestanti come l'Olanda o come la Svizzera sorsero sindacati cristiani interconfessionali. Il programma di queste organizzazioni cristiano-sociali era il miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori congiunto al ripudio della violenza ed alla condanna della lotta di classe e basato sulla collaborazione fra imprenditori e salariati. In Italia il movimento ebbe in un primo momento un carattere generico, mutualista e filantropico (cooperative, casse di credito agrario, banche popolari) e solo nel 1909 si concretò nella costruzione di un segretariato generale delle unioni professionali cattoliche.
Un cenno infine ai sindacati liberali già forti negli ultimi due decenni dell'Ottocento (i Gewerkvereine di Hisch-Duncker) in Germania e altre organizzazioni paternalistiche nei vari paesi d'Europa ed ai vari sindacati gialli  (costituiti fra crumiri al servizio del capitale).
I sindacati puri ebbero invece la loro patria d'origine in Francia e si diffonderanno prima o poi in Germania con i "localisti", in Inghilterra con i "sindacalisti rivoluzionari", in America con gli Industrial Workers of World, in Belgio con i "sindacalisti indipendenti", in  Olanda col Segretariato Nazionale del Lavoro, mentre in Spagna a fianco dell'organizzazione socialdemocratica si svilupperà fin dal 1908-1910 una corrente anarco-sindacalista che ripete le sue origini dalla prima Internazionale e che da vita alla Confederacion Nacional de Trabaio (C.N.T.).
La Francia dunque è la patria del sindacalismo puro che, per merito di una intera generazione di militanti operai di sinistra. vi tiene il campo per venti anni non già come movimento di minoranza (come accadeva negli altri paesi d'Europa, esclusa la Spagna) ma come una organizzazione generale unitaria dei lavoratori pari per consistenza numerica alle confederazioni "riformiste" degli altri paesi.
Gli uomini che si volgono al sindacalismo rivoluzionario provengono dalle più svariate esperienze politiche.  Sono anarchici come Pouget, Monatte, Delasalle; sono blanquisti come Griffuelhes o allemanisti come Bourderon; sono semplici organizzatori ed agitatori sindacali come Merrheim.
La storia del sindacalismo francese si divide in due grandi tempi. Il tempo della "Federation des Bourses du Travail " o di Pelloutier, il tempo del la "Confederation Generale du Travail " o di Grlffuelhes.
Fernando Pelloutier, uomo di larghe vedute e di fermo carattere, fu l'animatore della Federazione delle Borse fondata al congresso di Saint-Etienne nel febbraio 1892. Le Borse, la cui versione italiana è data dalle Camere del Lavoro, furono gli organismi che fino alla fine del secolo svilupparono una formidabile attività nel campo della resistenza, dell'assistenza e della cultura operaia. Il pensiero di Pelloutier che permea questi organismi e guida queste attività riflette i principi del socialismo primigenio: la funzione di cellule della società socialista attribuita alle "borse", la grande importanza assegnata alla educazione  rivoluzionaria ed alla formazione della coscienza di classe, la struttura federativa dell'organizzazione ed infine una  visione dei problemi che trascende i limiti contingenti e gli interessi particolaristici.
Con la morte di Pelloutier (1902), troppo presto strappato alla lotta da un implacabile mal sottile, la Federazione delle Borse si avvia all'alleanza con la più debole Federazione dei Sindacati - restando salvaguardata l'autonomia delle due organizzazioni, - per dar vita alla grande C.G.T. nello storico congresso di Montpellier del settembre 1902.
Victor Griffuelhes è il segretario della C.G.T. A differenza di Pelloutier, egli è del tutto sprovvisto di preoccupazioni ideologiche e non troppo incline, anche per temperamento, a concezioni libertarie. Sotto un aspetto strettamente sindacale, Griffuelhes è però un sindacalista più "puro" del suo predecessore. Egli crede nella spontaneità e nella capacità creatrice della classe operaia. Il suo pensiero si condensa nella Carta d'Amiens (1906) che riafferma l'indipendenza degli iscritti dall'organizzazione per quanto riguarda le loro vedute politiche o filosofiche e l'indifferenza dell'organizzazione stessa di fronte alle lotte politiche.Griffuelhes si dimette dal suo posto di segretario nel 1909, dopo aver legato il suo nome alle più epiche lotte del proletariato francese in quei primi anni del secolo. Dopo le sue dimissioni s'inizia nel sindacalismo francese un periodo di crisi che finirà per indebolire gradualmente l'autonomia dell'organizzazione a tutto vantaggio del partito socialista o per snaturarla nel corporativismo di categoria. Ed ora passiamo sul terreno delle idee.
Ci sarà facile distinguere tre fasi nella formazione del pensiero sindacalista:una fase corporativa nel corso della quale le idee dell'autosufficienza operaia o dell'azione diretta scaturite immediatamente dalla lotta, sono grossolanamente abbozzate in un operaismo rudimentale e greggio. In questa fase, che trova riscontro in veri "partiti operai", costituiti su basi corporative in Italia, in Francia ed altrove, l'istanza professionale prende il sopravvento su qualsiasi altra; e solo per reazione ai partiti politici si forma piuttosto che una ideologia, una mentalità che emana fiducia nelle capacita del proletariato, che coltiva la diffidenza verso le teorizzazioni, ritraendosi alfine su una piattaforma di apoliticità, esente da qualsiasi pretesa rivoluzionaria.
Sopravviene la fase sindacale. Sulla base stessa delle esperienze corporative, filtrate attraverso un esame critico e depurate da un troppo angusto ed incolore lavorismo, alcuni agitatori ed organizzatori e maestri enucleano una serie di principi che costituiranno i capisaldi teorici del sindacalismo: l'autonomia del sindacato di fronte ai partiti politici, la tattica dell'azione diretta extraparlamentare, il metodo della violenza e le sue applicazioni   (boicottaggio, sabotaggio, occupazione delle fabbriche), la pratica dello sciopero generale e soprattutto la massima valorizzazione della lotta di classe. Il sindacalismo ha ormai superato il suo stato neutro per assumere più precisi lineamenti. In realtà esso non consente più l'indifferenza di fronte a certi problemi e malgrado la resistenza di alcuni dogmatici dell'antipolitica, esso è sospinto ad affermare ed a negare, ad approvare ed a condannare, ad includere certe posizioni ed escluderne certe altre.In effetti, per questi agitatori, organizzatori e maestri il sindacato ha già cessato di essere un mezzo ed è divenuto un fine: una scuola di autogoverno oggi, una pietra angolare della nuova società domani. Sotto quest'ultimo aspetto il sindacalismo si avvicna all'anarchismo in quanto postula la necessità di affidare la gestione della cosa pubblica ai produttori organizzati nei sindacati. Siamo alla terza fase, alla fase propriamente sindacalista. Ora sono dei dottrinari che utilizzano a posteriori le esperienze sindacali e danno ad esse una sistemazione teorica, collegando quest'ultima da una parte alla revisiono del marxismo (Sorel) e dall'altra alla fortuna di nuove correnti filosofiche (Bergson, Blondel).
Il disgusto per i costumi democratici, la passione per l'azione, per la violenza e per la conquista, l'agonismo il volontarismo l'anti-ideologismo connaturati sia ai pratici che ai teorici del sindacalismo favoriscono questo connubio. In tal modo il sindacalismo partito in lotta contro la politica è spinto per altro verso a politicizzarsi fino alla mitologia. Ma come nella sua seconda fase la rivolta sindacalista aveva campeggiato in Francia, nella sua terza fase occuperà a lungo le scene in Italia.
Infatti fu in Italia che il sindacalismo soreliano ebbe maggior fortuna e maggior seguito che non negli altri paesi d'Europa, compresa la Francia. Proprio mentre in Francia declinava il sindacalismo "puro" di Pelloutier, in Italia prendeva piede il sindacalismo "rivoluzionario" di Sorel. E fra i giovani intellettuali socialisti esso trovò i suoi più tenaci ed appassionati assertori.
Si può dire che tutta una generazione di uomini nuovi abbracci la fede sindacalista. Scrittori come Arturo Labriola ed Enrico Leone, agitatori come Filippo Corridoni ed Alceste De Ambris, pubblicisti come l'Orano e l'Olivetti, seguiti da vasti consensi fra socialisti già noti come Costantino Lazzari, formano l'equipe sindacalista in Italia.  Il pensiero di Giorgio Sorel, che da tempo teneva contatti con Antonio Labriola e con Benedetto Croce, cominciò ad essere conosciuto in più vasti settori; soprattutto per merito di Agostino Lanzillo.
Il gruppo sindacalista si consolidò ben presto soprattutto in Lombardia e nella capitale stessa del riformismo, a Milano. Qui ebbe luogo nel 1904 il primo grande esperimento di sciopero generale promosso dai sindacalisti rivoluzionari ed in particolar modo da Arturo Labriola e da Walter Mocchi, in seguito all'eccidio di alcuni operai a Buggerru in provincia di Cagliari ed a Castelluzzo in provincia di Trapani (già si era avuto nel 1900 il primo sciopero generale limitato alla Liguria). Lo sciopero durato quattro giorni ed estesosi a gran parte d'Italia provocò maggiori risentimenti e recriminazioni nel partito socialista che non nello stesso governo, tanto che in quello stesso anno la frazione sindacalista ormai organizzata, presentatasi al congresso di Bologna, fu oggetto di aspre critiche da parte della maggioranza riformista del partito.
S'inizia così una serrata lotta fra sindacalisti e riformisti  sia nel partito sia nelle periferiche Camere del Lavoro. Alcune Camere del Lavoro vengono conquistate dai sindacalisti e    collegate in un "Comitato della Resistenza". Al congresso del partito del 1906, anno del secondo sciopero generale in seguito ai fatti di sangue a Torino, l'urto è evitato e rinviato. Ma al congresso costitutivo della C.G.L. tenuto nello stesso anno a Milano, dopo lunghe polemiche sulla formulazione del programma e dello statuto, la minoranza dei sindacalisti, dei repubblicani e degli anarchici abbandona l'aula dell'assemblea; non abbandona però l'organizzazione, dentro la quale continua ad operare come minoranza ed a tenere suoi particolari convegni  (Parma 1907 - Bologna 1909) detti " d'azione diretta ".
Solo nel 1908, dopo i due grandi scioperi agrari del Parmense (maggio-giugno 1907) e del Ferrarese (maggio-luglio 1908) il congresso del partito socialista tenutosi a Firenze procede    all'espulsione dei sindacalisti che continuano tuttavia la loro opera sul terreno economico, in campo confederale. Ed è in seguito a quest'opera che abbiamo nel 1912 la costituzione a Modena di una organizzazione sindacalista  rivoluzionaria: l'Unione  Sindacale  Italiana.
Ma ormai il sindacalismo cominciava a rivelare le sue incrinature e le sue debolezze: già suoi esponenti come Maraviglia e Forges Davanzati erano passati al nazionalismo prodigo di maggiori emozioni attivistiche; poi fu la volta dei tripolinisti come Labriola ed Orano; ed alfine dopo appena due anni di vita l'USI assiste alla secessione degli interventisti, cioè della maggior parte dei suoi teorici e dei suoi militanti d'avanguardia.
Restò un piccolo nucleo, composto nella maggior parte di anarchici, che nel corso della guerra tenne alta la bandiera dell'organizzazione e preparò il terreno per una rigogliosa ripresa. Se il sindacalismo rivoluzionario fini prima o poi  per travasarsi in forme di reazione politica, la causa non può essere stata puramente accidentale. Lagardelle in Francia e Labriola in Italia non rappresentano dei casi individuali, rappresentano dei fenomeni: nomi indicativi di tutto un fenomeno di degenerazione del sindacalismo.
Tentiamo una analisi. Forse uno dei motivi della trista fine del sindacalismo risiede nella sua stessa incoerenza. Il tradunionismo od il riformismo o il paternalismo od il corporativismo avevano una loro coerenza, sia pure reazionaria. Il sindacalismo rivoluzionario non ne ha alcuna. Esso da una parte rivendica la più ampia libertà di fede politica e religiosa per i suoi aderenti, e dall'altra si costituisce una sua propria politica e quasi una sua propria religione; a parole esalta l'idea suprema della classe e nei fatti eccita i più gretti interessi di categoria; nella teoria afferma la autosuificienza della sua organizzazione per l'atto rivoluzionario e nella pratica rivela l'impotenza di questa sua stessa organizzazione, i sindacati, ad abbracciare tutto intero il fronte rivoluzionario; si annuncia come l'antidoto della politica e quindi ne diventa esso stesso un veleno; oppure dichiara la sua volontà di rivoluzione sociale ed è poi costretto a confessare le limitazioni connesse all'eterogeneità  delle sue forze.Di qui il suo fallimento. Infatti se già il sindacato in quanto tale era rimasto impigliato, fin dai suoi primi passi, nell'ordine costituito, se il sindacalismo generico si era dovunque  adattato alle deformazioni del suo istituto-base, non poteva avere sorte diversa il sindacalismo specifico che su quello stesso tipo di istituto imperniava tutta la sua azione.Morendo, il sindacalismo ci lasciava una eredità; una eredità positiva e negativa. La parte negativa era rappresentata dalla demagogia operaista, dall'attivismo indiscriminato, dal culto delle èlites, dal mito dello sciopero generale.
La parte positiva era invece costituita dalla provvidenziale reazione al malcostume democratico e socialdemocratico, dalla mobilitazione e dall'organizzazione delle grandi masse, dal loro allenamento alla lotta.E infine il sindacalismo ci lasciava aperto un problema: quello dei rapporti fra movimento politico e movimento economico di classe.Dopo che l'esperienza aveva escluso il tentativo di un movimento misto (prima Internazionale) e denunciato altresì i danni della subordinazione del movimento economico a quello politico (seconda Internazionale), il sindacalismo aveva provato una terza via: quella della autarchia rivoluzionaria del movimento economico.Ma in questa prova era caduto, lasciando insoluto il problema.
Dovevano riprenderlo in esame gli anarchici che, dopo essersi interessati parecchio alla questione e dopo aver offerto delle soluzioni non troppo convincenti come l'autosufficienza assoluta del movimento politico (o la sua indifferenza alla stessa lotta di classe?) o la incomunicabilità fra i due movimenti. approdavano, per merito soprattutto degli spagnuoli e dei russi, ad una posizione che si potrebbe formulare in questi termini:la critica sindacalista colpiva nel segno quando attaccava la subordinazione dei sindacati ai partiti socialdemocratici. Infatti si trattava di una subordinazione ad organizzazioni di partito che in quanto tali operavano sul piano parlamentare e vi compromettevano anche il sindacato, utilizzandolo per scopi estranei ai reali interessi dei suoi membri. Ma la stessa cosa non si può dire per il movimento anarchico il quale, come minoranza cosciente ed organizzata della classe, non ripete i vizi dei partiti politici tradizionali.  In  esso il sindacato specchiandosi non può ritrovare che politicamente rappresentata la sua stessa (e comune) istanza rivoluzionaria.Perciò sotto  questo aspetto la complementarità fra movimento economico (sindacale) e movimento politico (anarchico) non solo è utile ma è necessaria, in quanto se il movimento politico è la forza preminente ed il nucleo orientatore, il movimento economico, quando sia influenzato in senso libertario è il luogo d'unione fra le grandi masse e la minoranza rivoluzionaria.
Nella misura in cui l'atto rivoluzionario si approssima, si accresce l'importanza del movimento economico come intelaiatura della società nuova, come sede di esperimento produttivo e di vita associata. Ma la sua efficienza e la sua corrispondenza allo scopo può essere solo garantita tramite la sorveglianza rivoluzionania e l'orientamento ideolologico assicuratogli dal movimento politico. Sotto quest'aspetto avevano avuto torto i sindacalisti soreliani con le loro fantasie sulla autonomia dei sindacati dalla politica. Essi non erano riusciti a distinguere fra la politica reazionaria che indeboliva i sindacati e la politica rivoluzionaria che invece li rafforzava.
Più oltre andarono quegli anarchici che facendo tesoro della esperienza dei "consigli" quale era stata offerta dalla rivoluzione russa del 1905, introdussero nel patrimonio della classe operaia una nuova formula, che, prendendo atto del decesso dei sindacati, affidava alle assemblee o consigli dei membri di ogni unità economica, civile o culturale, la "amministrazione delle cose" nel loro stesso ambito. Di questa formula e delle sue applicazioni, parleremo in altro paragrafo.

 

4) il movimento operaio di fronte alla prima guerra mondiale dell'epoca imperialista.

Il movimento operaio nel primo quindicennio del secolo ventesimo si era tanto fortemente sviluppato dal punto di vista organizzativo quanto si era indebolito sotto l'aspetto agonistico e di classe. I partiti socialisti avevano ottenuto pieno diritto di cittadinanza in quasi tutti i paesi europei. In Italia col nuovo regno era subentrata alla feroce politica crispina una democratica tolleranza che ebbe il suo artefice in Giolitti, in Francia dopo l'affare Dreyfus si era aperto un periodo di vigile difesa della repubblica, in Germania erano state abolite le leggi antisocialiste di Bismark e allontanato il vecchio cancelliere.
Dovunque i partiti socialisti fanno così un passo in avanti verso il loro inserimento nell'ordine costituito: in Italia si apprestano a votare più volte per il governo ed ad avere uno dei loro, il Costa, vice presidente  della Camera;  in Francia nel nome del  primo deputato socialista membro di un ministero borghese, sorge il millerandismo, cioè la tendenza dei socialisti a partecipare alle responsabilità di governo ed il luglio 1914 troverà un socialista indipendente, il Viviani,  al timone dello stato e della guerra;  in Germania i socialdemocratici  vedono  aumentare  progressivamente la loro rappresentanza al Reichstag fino a divenire il più forte ed il meglio organizzato partito politico tedesco.
Dovunque abbiamo un processo di  dissoluzione del movimento di classe che si integra, si innesta, s'incorpora nel regime borghese e ne diviene talvolta un sostegno di conservazione od uno strumento passivo di asservimento delle masse. Il movimento della classe operaia cessa di svilupparsi in opposizione al movimento della classe capitalistica ma accetta il ruolo di oppositore leale e legale dell'ordine costituito in cambio di provvidenze, di concessioni e di riforme sociali che i leaders socialisti sbandiereranno alla masse come alte e coraggiose conquiste, in realtà come alibi del loro tradimento.
Sorge la socialdemocrazia, cioè la nuova versione democratica e parlamentare del socialismo. Non pochi teorici  curano  un'ottima presentazione delle nuove idee, procedendo alla revisione, del resto non difficoltosa, dei testi marxisti. La guerra, quando scoppia, trova il proletariato tutto imprigionato nei partiti socialdemocratici e, per loro tramite rinsaldato al giogo dello stato nazionale imperialista di cui questi sono divenuti ormai satelliti rotanti nella sua orbita, trova una organizzazione internazionale della classe operaia ridotta ad una decorativa fratellanza  rumorosa solo negli urrah congressuali, trova soprattutto il proletariato privo di una teoria che lo guidi di fronte a questo imprevisto accidente: la guerra imperialista.

La guerra imperialista era infatti un tipo nuovo di guerra. Si vide subito che essa, travolgendo tutto un mondo non sarebbe finita nè con un compromesso nè con una mediazione, ma solo quando uno dei due contendenti fosse caduto in ginocchio; si avvertì subito che la mobilitazione generale questa volta doveva esser presa alla lettera nel senso che essa avrebbe impegnato in modo totalitario tutti i cittadini sia al fronte che all'interno, sia nella loro attività pubblica che nella loro vita privata; si comprese subito che la guerra, neppure in caso di vittoria, avrebbe cambiato le condizioni di una determinata classe lavoratrice, ma che anzi essa si sarebbe conclusa senza vinti e senza vincitori, o meglio con un solo vinto, il proletariato, con un solo vincitore, il capitalismo. Per resistere a questa guerra le vecchie fole umanitarie ed universaliste del socialismo, le tesi pacifiste rabberciate da dottrinari  socialdemocratici, gli stessi partiti operai tradizionali non potevano far nulla. A forza di parlare di neutralità e di disarmo questi partiti avevano finito proprio per neutralizzare ogni forza offensiva  del proletariato e per disarmare le organizzazioni di classe. D'altra parte la classe operaia mondiale era tutt'altro che allenata alla solidarietà internazionale. Erano mancate drammatiche occasioni di collaudo dal '70 in poi. A scongiurare la minaccia della guerra e a sedare gli allarmi, per gli incidenti di Fascioda o di  Agadir, di Tangeri o  di Trieste, per la separazione fra Svezia e Norvegia o per l'occupazione della Bosnia, erano stati sufficienti brindisi di pace, scambi di telegrammi e dichiarazioni di inalterata solidarietà. Tuttociò non impediva che lentamente all'interno di ogni stato le organizzazioni andassero "nazionalizzandosi"  particolarmente ai vertici delle cosidette "aristocrazie operaie" il cui livello di vita era proporzionale alla prosperità delle rispettive classi dominanti, allora in fase di espansione coloniale e non ancora attanagliate dalla crisi. Solo col pronunciarsi sempre più acuto dell'imperialismo e con il dilatarsi delle sue crisi a dimensioni  mondiali, il proletariato andrà ritrovando la sua unità al di sopra delle frontiere

nazionali, al di sopra delle sue stesse divisioni di categoria. Ad osservare dall'alto il naufragio del proletariato mondiale di fronte alla prima guerra imperalistica scorgiamo come nessuna formazione abbia salvato la sua integrità: socialisti di destra e socialisti di sinistra, pacifisti umanitari ed antimilitaristi  rivoluzionari, sindacalisti maggioritari e sindacalisti minoritari, anarchici comunisti e anarchici individualisti: tutti i gruppi che più o meno interpretavano la istanza di classe nel mondo hanno una loro parte di responsabilità nella tragedia.
In Italia si trovano e si ritrovano sulla sponda della guerra i socialisti riformisti espulsi dal partito nel 1912 (con Bissolati che sarà ministro nel governo di unione nazionale) insieme ai loro inquisitori del congresso di Reggio Emilia, Mussolini in testa; sindacalisti, rei di tripolinismno, come Labriola ed Orano nonchè gli intransigenti antilibicisti Corridoni e De Ambis  con tutta la folta frazione del sindacalismo interventista; e perfino  gli anarchici Massimo Rocca e Maria Rygier che sanano le precedenti divergenze nella follia del maggio radioso. Poi interverranno ufficiosamente e di soppiatto anche i neutralisti siano essi i sindaci di Bologna e di Milano mobilitati nel ruolo di "crocerossine", siano i leaders del partito, Turati e Treves incitanti alla resistenza dalla tribuna parlamentace all'indomani di Caporetto, siano i dirigenti della Confederazione  del Lavoro propugnanti la  tregua  sociale e patriottica.
In  Francia  si fonda l'Union Sacrèe. Millerand, Guesde, Sembat, Thomas entrano a far parte del gabinetto di guerra e sospingono le masse al macello per la difesa della patria borghese. Qui la disfatta è totale.Anche Hervè giuoca la sua fama di efferato antimilitarista a beneficio della difesa nazionale. Anche diversi militanti anarchici, accecati dalla propaganda democratica, con un atto di irresponsabilità che farà sentire più tardi le sue conseguenze, rinnegano il loro passato e col "manifesto dei sedici" divengono partigiani della vittoria delle potenze alleate. In Francia inoltre tutta la vecchia e pur gloriosa C.G.T. ad eccezione della minoranza guidata da Monatte e in sottordine da Rosmer, Bourderon e Meerheim si mobilita per la guerra in compiti ausiliari ma soprattutto in compiti di smobilitazione della lotta di classe a tutto vantaggio dei capitalisti e dello stato, con i cui rappresentanti siedono ora i confederali nelle poltrone delle commissioni miste o paritetiche. In Germania tutto il partito socialdemocratico affianca la guerra. I suoi centodieci deputati accordano all'unanimità i crediti di guerra.Anche i 14 deputati della minoranza,  pur dissentendo non osano rompere la disciplina di partito. In Austria-Ungheria i potenti calibri dell'austro-marxismo sparano per la guerra aggressiva degli Asburgo mentre nel Belgio i capi socialisti incitano le folle alla difesa della patria invasa. In Russia, data anche la particolare situazione interna contraddistinta dalla opposizione netta fra movimento operaio e regime czarista nonchè dall'assenza di ogni richiamo parlamentare, il partito bolscevico è  l'anima della resistenza contro la guerra.
Quella stessa situazione tuttavia non impedisce a menscevichi di destra come Plekanoff o socialrivoluzionari di destra come Kerenski di sottoscrivere la guerra imperialista ed a menscevichi di sinistra come Martov di oscillare fra l'attendismo e l'opportunismo aperto.Questa era la situazione sui diversi piani nazionali. Sul piano internazionale nel mese intercorso fra l'attentato di Sarajevo e l'inizio della guerra, il mondo socialista fu in preda ad una nervosa agitazione che ne denunciava l'assoluta impreparazione a dominare la situazione, a fronteggiare gli avvenimenti. Infatti tutti i precedenti solenni impegni contro la guerra,  acclamati   nei congressi, non erano sufficienti per la loro elasticità  d'interpretazione (pari solo a quella dei trattati diplomatici!) a offrire un orientamento nel caso concreto di un conflitto mondiale (del resto dopo che a Bruxelles nel 1891 era stata respinta la proposta Niewenhuis per lo sciopero generale contro la guerra, gli impegni erano stati sempre molto vaghi).Il 26 luglio 1914 si concluse a Bruxelles un congresso sindacale che non mancà di elevare una protesta ed un voto ed un giuramento: ma erano parole.Il 29 luglio si riunirono ancora a Bruxelles in una drammatica seduta i rappresentanti di tutti i partiti socialisti ed approvarono una equivoca dichiarazione con la quale i socialisti francesi si impegnavano ad esercitare pressioni sul loro governo perchè raccomandasse la calma alla Russia mentre i socialisti tedeschi si impegnavano a fare altrettanto nei confronti del proprio governo con particolare riguardo all'Austria. Diplomazia. La decisione di anticipare al 14 agosto a Parigi il congresso che si sarebbe dovuto tenere il 29 agosto a Vienna era l'ultimo atto della commedia mentre erano gia in marcia gli eserciti verso le frontiere.Di fronte alla guerra tutti gli impegni vengono dimenticati ritrattati rinnegati. La seconda Internazionale rantola nel fango del tradimento.Ogni partito trova un pretesto per sfuggire alle sue responsabilità; la patria in pericolo, la difesa del quantum di socialismo realizzato nel proprio paese, la solidarietà con i popoli aggrediti, la guerra al militarismo e... perfino il disdegno del troppo... comodo pacifismo.
Nei primi mesi di guerra tutti i contatti sul piano internazionale vengono interrotti. Solo all'inizio del gennaio 1915 abbiamo un incontro a Copenaghen fra socialisti di paesi neutri, nel febbraio a Londra un incontro fra socialisti dei paesi "alleati", nel marzo a Berna una conferenza internazionale delle donne socialiste, nell'aprile a Vienna un incontro fra socialisti degli stati centrali. Nel settembre 1915 abbiamo finalmente a Zimmerwald la prima conferenza internazionale dei partiti socialisti o meglio delle frazioni non guerrafondaie degli stessi. Vi si ritrovano "indipendenti" tedeschi e "neutralisti" italiani, bolscevichi russi e sindacalisti minoritari francesi, oltre a polacchi, balcanici, svedesi, norvegesi, olandesi e svizzeri. Zimmerwald rappresentò un segno chiaro di resipiscenza e di ripresa del movimento operaio: essa pur avendo esaurito il suo compito nella firma di una comune dichiarazione socialista franco-tedesca e nel lancio di un accorato appello al lavoratori  d'Europa, contribuì a risollevare  la  fiducia delle masse e delle minoranze  rivoluzionarie, contribuì soprattutto a mettere in evidenza come in seno alla stessa compagine zimmerwaldiana  esistessero due  opposte correnti: un "centro" che si rifiutava di aprire un processo critico a carico della Il Internazionale e dei partiti socialdemocratici e di procedere ad una rottura con i socialpatrioti, impostando un nuovo indirizzo dell'azione socialista quale  scaturiva dalle recenti esperienze e dalla pregiudiziale della lotta contro la guerra; una "sinistra"  che invece poneva sul tappeto il problema della lotta contro l'imperialismo e contro la guerra, il problema della nuova organizzazione  e  della nuova tattica per condurre questa lotta.
A Zimmerwald niente di tutto ciò  fu deciso, ma il centro e la sinistra scrissero chiaramente sulla propria bandiera, gli uni "la fine della guerra impeialista con una pace democratica", gli altri "la trasformazione della guerra imperialista nella guerra civile di classe". Nell'aprile del 1916 a Kienthal si ebbe una seconda conferenza internazionale alla quale partecipano altri numerosi gruppi socialisti avversi alla prosecuzione della guerra. Anche se la conferenza di Kienthal ha di per sè una importanza morale pari alla risonanza che ebbe il suo manifesto "ai popoli che la guerra rovina ed uccide", tuttavia il suo valore politico sta in una più  marcata differenziazione fra "centro" e  "sinistra". A Kienthal i  bolscevichi presentano alcune assai risolute tesi che seppure non accettate, influenzano non poco i quattordici punti appprovati dalla conferenza. In ogni paese si vanno rapidamente configurando, nello spirito di Zimmerwald e di Kienthal, nuove correnti. In Francia operano sempre più consistenti minoranze antibelliciste, soprattutto nella C.G.T.; in Italia dopo i moti antimilitanisti di Torino dell'agosto 1917 ed il conseguente processo, dopo le numerose condanne di socialisti, di anarchici, di disertori, di agitatori che avevano tenuto desta l'opinione pubblica nel corso della guerra abbiamo al XV congresso del Partito Socialista (Roma 1-5 settembre 1918) la netta prevalenza della "sinistra"  e la sconfitta del "centro" al cui leader Turati viene inflitta una severa deplorazione per un discorso sciovinista pronunciato alla Camera; in Austria-Ungheria l'attentato di Federico Adler contro il ministro degli Esteri von Sturgkh, la condanna a morte dell'attentatore e la successiva commutazione della pena, le manifestazioni e gli scioperi per la pace denunciano il cambiamento avvenuto nella situazione dal 1914; in Germania sorge lo "Spartakusbund" decisamente disfattista, e il Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco, fermo oppositore della continuazione della guerra, i quali, dopo l'arresto e la condanna di Liebneckt, guidano i grandi scioperi del giugno  1916 (50.000  operai),  dell'aprile 1917 (200.000 operai), del gennaio 1918 (mezzo milione di operai di cui 400.000 a Berlino) mentre la flotta si agita nell'estate 1917 ed i marinai ribelli vengono messi a morte; negli Stati Uniti d'America l'intervento in guerra provoca la tenace resistenza dell'opinione pubblica animata  dal   leader socialista V. Eugenio Debs mentre il governo scatena la reazione contro i sovversivi  (particolarmente contro gli agitatoni della I.W.W.) col pretesto della caccia alle spie tedesche: Debs è incarcerato, altri militanti rivoluzionari vengono linciati, due sovversivi Mooney e Billing ingiustamente accusati di un attentato ad una parata militare a San Francisco (1916), sono condannati a morte e solo più tardi hanno commutata la pena nel carcere a vita; infine in Russia la rivoluzione vittoriosa addita ai lavoratori d'Europa la giusta via per stroncare la guerra imperialista; in ogni paese la socialdemocrazia, ferita dalla vergogna nella sua ala destra, comincia a sbandare, tenta di nascondere le sue colpe, cerca di ripararvi con tentativi di compromesso per porre fine alla guerra con intrighi dall'alto. Ma per le borghesie d'Europa è giunta ormai l'ora dell'espiazione.
Un particolare sguardo merita il movimento anarchico internazionale, poichè anche fra gli anarchici lo scoppio della guerra provocò una salutare selezione, denunciando difetti e debolezze.
Era dal 1907 che gli anarchici non si erano più riuniti in un congresso internazionale e proprio quando nell'agosto del 1914 si apprestavano a tenerne uno a Parigi, sopravvenne il conflitto. Questo contrattempo deve aver contribuito non poco al susseguente disorientamento. Infatti di fronte alla guerra, dopo che il vecchio tradizionale antimilitarismo aveva mostrato la sua insufficienza al pari del pacifismo, il movimento anarchico si trovò diviso, come quello socialdemocratico, in tre correnti determinate da tre distinti atteggiamenti:
a) i socialpatrioti: coloro che in modo aperto agitavano il mito della  guerra rivoluzionaria. Si trattava di un'accozzaglia di isterici e di ribelli alla moda, di maniaci della violenza o di autentici filibustieri che si erano venduti al primo offerente: gente che aveva potuto introdursi od accostarsi al movimento anarchico, data la cronica disorganizzazione e la tradizionale bonomia dello stesso in un periodo in cui era anche molto in uso anarcheggiare per far paura ai borghesi e per far tremare le barbe socialdemocratiche. Particolarmente in Italia questo esiguo gruppo di spostati -molti dei quali da tempo avevano rotto ogni rapporto col movimento militante-  fece del rumore ed acquistò notorietà per la fondazione dei primi "fasci" interventisti. Tutti, da Massimo Rocca a Maria Rygier, da Mario Gioda a Oberdan Gigli da quel momento passarono automaticamente al servizio della reazione e si autocandidarono a prime reclute dello squadrismo fascista.
b) gli anarchici di governo, detti anche "anarchici della trincea". Occuparono nel movimento anarchico la posizione tenuta dai centristi nei partiti socialdemocratici. Non aderirono apertamente ed incondizionatamente alla guerra, ma presero parte fra i belligeranti, esprimendo pubblicamente il loro favore alle potenze alleate e contro agli Imperi centrali. Gli anarchici di governo - fra i quali si contavano figure di indiscusso valore morale e di chiara integrità  rivoluzionaria come  Kropotkin, Grave, Malato, Cornelissen e gli altri firmatari del "manifesto dei sedici" - rimasero sopraffatti dagli avvenimenti e non riuscirono a vincere le suggestioni che da quelli emanavano. Con la loro condotta debole e irresponsabile rivelarono d'essere più dei democratici d'estrema che degli anarchici. Il danno che essi apportarono al movimento fu assai grave. Se nel dopoguerra, in certi paesi e soprattutto in Russia, gli anarchici non poterono ricoprire il ruolo che il passato ed il presente loro conferivano, la causa va ricercata nell'atteggiamento incerto ed opportunista che certi noti militanti tennero di fronte alla guerra. 
c) gli anarchici: coloro che non si piegarono al sofismi della guerra rivoluzionaria o della pace democratica. Furono la grande maggioranza nel movimento anarchico internazionale. Lanciarono un  Manifesto Anarchico contro la Guerra (marzo 1915).
Fra gli italiani,  (i quali pure avrebbero dovuto tenere un congresso nazionale a Firenze nel luglio 1914) Malatesta con i  suoi  articoli londinesi  su Freedom, Bertoni con il giornale Il Risveglio in Svizzera, Fabbri con un chiaro scritto su "Gli anarchici e la guerra europea", Galleani in America con la "Cronaca Sovversiva" salvarono nell'anarchismo l'onore del proletariato e la causa stessa della rivoluzione. Mentre questi uomini si battevano in una dura battaglia sul fronte delle idee, altre centinaia di anarchici incassavano secoli di galera per diserzione, altri passavano di fronte ai tribunali in grandi processi collettivi per disfattismo, altri ancora erano internati in zone inospiti. In Italia il vecchio anarchico internazionalista Francesco Pezzi che alla notizia della guerra si uccide a Firenze perchè "disgustato" dalle follie e dalle miserie umane, ed il giovane Camillo Berneri che dimostra contro la guerra per le vie di Reggio Emilia e viene più tardi internato nell'isola di Pianosa: ecco due episodi fra i tanti. Negli altri paesi d'Europa la resistenza fu altrettanto tenace. Nell'insieme il movimento anarchico, malgrado le salutari defezioni e i dolorosi distacchi, non venne meno al suo compito.
Un ultimo cenno al sindacalismo rivoluzionario che in Italia poteva contare sull'Unione Sindacale Italiana ed in parte sul Sindacato Nazionale Ferrovieri (autonomo ma orientato in senso libertario).
L'U.S.I. dopo che si fu liberata dei nazional-sindacalisti che avevano la loro roccaforte nella Camera del Lavoro di Parma ed il loro "duce" in Filippo Corridoni, mantenne una condotta intransigente contro la guerra, in tutto il suo corso, anche di fronte a Caporetto. Malgrado che il suo segretario fosse stato arrestato e internato, il giornale dell' l'U.S.I., Guerra di Classe (mentre i nazional-sindacalisti redigevano sulle orme di Hervè Guerra Sociale) difese energicamente e fra mille difficoltà queste posizioni. Questa pagina di resistenza è documentata dalle risoluzioni dei vari Consigli Nazionali dell'U.S.I. che si convocarono nel corso del conflitto e dalla attività locale delle organizzazioni sindacaliste rivoluzionarie in particolar modo a Terni, Sestri, La Spezia, Piombino, Carrara, Modena, Bologna etc.
All'inizio di questo paragrafo abbiamo avvertito come una delle ragioni per cui il movimento operaio precipità in crisi di fronte alla guerra, fu la mancanza di una salda guida ideologica, di una sicura teoria sul problema della guerra ed in particolare della guerra imperialista.
Il marxismo non aveva dato una soluzione chiara a questo problema: il giudizio dei   marxisti sulla guerra era inficiato e dal valore che essi attribuivano alle realtà nazionali avviate sul binario dell'indipendenza e della  rivoluzione democratica, e dal riconoscimento della dialettica necessità della guerra nello sviluppo della società capitalistica. Ambedue queste tesi erano giuste, o per meglio dire giustificate dal periodo preimperialistico in cui Marx ed Engels vissero.
Ma accoglierle nel patrimonio ideologico del proletariato significava adattarsi a camminare su un fil di rasoio: ciò che non seppero fare nè Marx nel 1870 quando parteggiò apertamente per la Prussia contro la Francia nè Engels più tardi quando a proposito di una eventuale guerra della Germania contro la Russia, prese anch'egli posizione a favore dello stato tedesco.
Di fronte al problema della guerra il marxismo avanzava una complicata casistica tutta dettata da scrupoli di malapposto storicismo, sollevando ora il pretesto della difesa di certe conquiste sociali, ora pur quello della difesa contro l'aggressione. Se a ciò si aggiunge la constatazione del fenomeno guerra come fatto dialetticamente necessitato e catastroficamente indispensabile nel processo storico del capitalismo ecco che ne discende talvolta una superione indifferenza alla guerra, tal'altra l'esclusione di qualsiasi iniziativa per cambiare il corso degli avvenimenti (codismo). E' la posizione di Guglielmo Liebneckt al congresso internazionale di Bruxelles del 1891 di fronte alla proposta dei socialisti  olandesi  (fra cui Domela Nleuwenhuis, più tardi anarchico) di rispondere alla guerra con lo sciopero generale. Liebneckt sostiene che la guerra è un effetto dell'ordine economico capitalista e che tutti i tentativi per impedirla sarebbero utopistici ed insufficienti. L'argomento, in apparenza ispirato al più "scientifico" socialismo, era volgare e grossolano: celava già la tendenza a capitolare di fronte alla guerra, in effetti ad operare a favore della guerra. (Le dichiarazioni di un altro teorico, di Antonio Labriola,  a favore de!l'espansione italiana in Libia sotto lo specioso pretesto che la liberazione di certe zone e di certe forze dall'economia pre-capitalistica e la loro inserzione nel ciclo storico del capitalismo rappresentava un progresso dialettico, peccava nello stesso senso: quello di non saper dissodare la registrazione di un processo dialettico incastrato nello sviluppo del capitalismo, dalla sua reale utilizzazione da parte del movimento operaio che operava esattamente in una opposta direzione).Con questo incongruente miscuglio di  giudizi i dottrinari socialdernocratici non potevano che dibattersi nel dubbio e nella contraddizione: in particolare i socialdemocratici italiani che tuttavia meno del loro compagni europei, restarono compromessi nella tragedia. La parola   d'ordine  di Costantino Lazzari "non aderire e non sabotare", l'amena interpretazione che ne dette il Graziadei ("io come soclalista non voglio fare il gioco della classe dirigente del mio paese: perciò non aderisco; ma non voglio neppure fare il gioco della classe dirigente dell'altro paese: perciò non saboto"), le dichiarazioni di Prampolini, di Turati, di Treves di Modigliani nei dibattiti alla Camera rappresentano una curiosa e penosa antologia di sofistica parlamentare. Ed anche quando i socialisti italiani aderiranno a Zimmerwaid, non muteranno in sostanza il loro atteggiamento ma tenteranno di gabellare per intransigenza quella che era invece matta paura delle responsabilità. Complessivamente se si eccettuano la Luxemburg che da tempo aveva superato ogni pregiudizio nazionale, i socialisti olandesi che si rifacevano a ben radicate tradizioni libertarie e che vivevano in un paese neutrale, ed i bolscevichi russi, tutta la socialdemocrazia europea più o meno funzionò da fureria per gli eserciti dell'imperialismo.
D'altra parte anche l'antimilitarismo tradizionale aveva fatto pieno fallimento sia fra i socialisti rivoluzionari, sia fra i sindacalisti, sia fra gli anarchici, sia fra i pacifisti. Il fatto che Hervè (che era stato severamente criticato da Malatesta in un contradittorio di alcuni anni prima) dal suo antipatriottismo sbracato fosse passato agli avamposti del bellicismo, che il vecchio Cipriani avesse aderito alla guerra degli occidentali, che Mussolini fosse divenuto il più acceso degli interventisti, che quel Moroni (di cui facemmo cenno a proposito della settimana rossa) si fosse arruolato volontario per il fronte, che Ernesto Teodoro Moneta, patriarca del pacifismo italiano e premio Nobel per la pace, avesse sottoscritto per la guerra, che i collaboratori del "Rompete le file", giornaletto clandestino antimilitarista, si trovassero ora fra gli Arditi: tutto ciò provava che l'antimilitarismo ed il pacifismo tradizionali avevano fatto  bancarotta. Essi erano stati dei puri atteggiamenti morali la cui fortuna facilmente si spiegava con l'odio istintivo diffuso fra le masse italiane contro la guerra. Quando nuove passioni erompono dall'opinione pubblica, quei  sentimenti morali invertono direzione. Chi si era appigliato soltanto ad essi, resta travolto.
L'antimilitarismo, come già l'anticolonialismo in quanto idea, pratica e costume era fallito per il suo contenuto quasi sempre riformista (campagna per il disarmo e per gli arbitrati, rifiuto di crediti per spese militari dette "improduttive", proteste contro gli eccessi disciplinari nell'esercito, critica delle caste militari parassitarie)  ma soprattutto perchè isolato e specifico reattivo ad un fenomeno, il militarismo, che aveva cessato da tempo di essere isolato e specifico ma era andato inquadrandosi e generalizzandosi nel complesso apparato della conservazione capitalistica. Questo fatto nuovo, d'ordine squisitamente imperialista, esigeva un adeguamento della tattica proletaria: dall'antimilitarismo umanitario o dinamitardo era l'ora di passare all'intervento disfattista di massa,  prodromo necessario della guerra civile.

5) La rivoluzione e la controrivoluzione in Russia.

Esiste una impostazione propagandistica dei problemi della rivoluzione russa ed esiste una impostazione critica di questi stessi problemi.
Secondo l'impostazione propagandistica la rivoluzione russa avrebbe completamente debellato i suoi nemici interni e non avrebbe oggi che da battere i suoi nemici esterni dovendo intendersi i termini interno ed esterno in riferimento allo Stato russo. Secondo    questa impostazione il problema della rivoluzione russa, come fu in un primo tempo quello della difesa e della conservazione dello stato russo, oggi è quello della sua espansione e della sua egemonia nel mondo. Secondo l'impostazione critica invece tutto è visto non in funzione dello stato russo ma in funzione della rivoluzione operaia mondiale. Sotto questa luce i termini della questione si rovesciano: la rivoluzione russa ha vinto in un primo tempo sui suoi nemici esterni -  gli antagonisti di classe come la nobiltà fondiaria, la borghesia capitalistica, i vecchi gruppi privilegiati, la corte, gli eserciti della restaurazione - ma è stata vinta in un secondo tempo dai nemici interni ad essa, dai nemici che essa si era allevata in seno. Da questa impostazione sorgono due interrogativi: perchè la rivoluzione russa fu la prima rivoluzione vittoriosa sui suoi nemici esterni? perchè la rivoluzione russa, vittoriosa sui suoi nemici esterni, fu alfine vinta dai suoi nemici interni? In queste due domande e nelle risposte che esse aspettano, stanno racchiusi i preziosi insegnamenti del più grande avvenimento di questo mezzo secolo di lotta della classe operaia. L'anno 1917 vide per la prima volta il proletariato vittorioso sul suo secolare nemico. Non era ancora terminata la grande guerra imperialista che questa guerra si trasformava già in guerra civile su uno dei fronti più importanti, all'interno di uno dei più potenti stati belligeranti.
E ciò non avveniva certo per miracolo: avveniva solo perchè finalmente venivano a coincidere tre fondamentali premesse della vittoria rivoluzionaria: l'iniziativa di una minoranza, la partecipazione delle grandi masse operaie e contadine delle città e delle campagne, la catastrofe del vecchio regime. La minoranza rivoluzionaria russa si era forgiata in un secolo di lotte e di persecuzioni. Aveva avuto i suoi profeti ed i suoi precursori, i suoi apostoli ed i suoi martiri: e poi agitatori sempre meglio temprati, militanti sempre più agguerriti ed esperti. Attraverso incontri e scontri di esperienze essa si era costituita un vasto patrimonio scientifico, un suo metodo, una sua critica, una sua teoria rivoluzionaria. Particolarmente aveva avuto modo di collaudarsi, soprattutto nelle sue punte più avanzate (anarchici, bolscevichi, socialisti rivoluzionari) in occasione delle giornate del 1905. A differenza dei movimenti operai dell'Europa Occidentale non si era corrotta nel parlamentarismo. Nel corso della guerra mondiale essa aveva fondato gli immediati presupposti polemici ed organizzativi per il suo successivo intervento nella crisi dello stato russo in decomposizione.Infatti è la sua apparizione, il suo quasi leggendario ritorno fra il popolo in rivolta che mette in fuga tutti gli uomini e tutti i gruppi rappresentativi della cadente autocrazia czarista.Con la minoranza rivoluzionaria entrano in movimento anche le grandi masse: cinquanta milioni di contadini affamati di terra, dieci milioni di soldati affamati di pace, cinque milioni di operai affamati di giustizia. Sono milioni i contadini, già umiliati ed offesi, già beffati dall' "emancipazione dei servi", che cominciano a non pagare più i canoni, ad invadere abusivamente i pascoli, a trar legna dai parchi dei signori, e poi abbattono i confini sopprimono gli agenti agrari, espropriano i  latifondi dei nobili e dei preti, ed infine tolgono di mezzo i padroni, appiccano il fuoco ai loro circoli, assaltano e saccheggiano le loro ville, radono al suolo il sacro tempio della proprietà fondiaria. Sono milioni i soldati che dopo anni trascorsi nelle trincee tra il fuoco del nemico ed il fuoco non meno micidiale delle decimazioni, si accendono alla rivolta, rispondono ai richiami del disfattismo rivoluzionario, linciano gli ufficiali, fanno saltare i comandi, fraternizzano con i soldati nemici, disertano in massa il fronte, accorrono con le armi nelle città a dar man forte all'insurrezione. Sono milioni gli  operai - i metallurgici di Mosca, i siderurgici di Pietrogrado, i minatori del Donetz, i tessili di Ivanovo, i ferrovieri ed i portuali - che si erano preparati ed educati durante anni ed anni alla lotta di classe : ecco  che  ora intervengono  anche essi costituendosi in soviety, avanzando rivendicazioni economiche e facendo su di esse leva per più vaste agitazioni politiche, organizzando reparti armati, trasformando le fabbriche in cantieri morali e materiali della rivoluzione in cammino. Chi poteva resistere a questa spinta che univa gli ammutinati della flotta ed i disertori dell'esercito, le folle grigie e cenciose delle città con le plebi calanti dalle campagne?Non certo il vecchio apparato statale, immobile mostro smagato nel suo prestigio, colpito duramente nel suo cervello e nel suo cuore.La corte impietrita dalla visione della sua imminente rovina, i consiglieri muti ed incerti, l'amministrazione pubblica inerte e corrotta, le gerarchie militari nervose ma indecise, la nobiltà  già prostrata al preannuncio della bufera:  tutta la vecchia classe dirigente aveva perduto la testa. La guerra imperialista stava sortendo un effetto che forse i suoi alti responsabili, abituati com'erano a cavarsela nel gioco con la perdita di una provincia o di un pugno d'oro, questa volta non avevano esattamente preveduto. Questa volta era una  fra le più antiche e venerate ed invulnerabili corone d'Europa che cadeva in frantumi alla prima seria scossa, travolgendo nella sua rovina tutto un mondo da secoli assiso sulle sue basi economiche e giuridiche, civili e religiose.
La rivoluzione aveva vinto. Ma come aveva vinto, o meglio, fino a che punto aveva vinto? Ecco che variamente formulato ritorna il secondo interrogativo che abbiamo  premesso  all'inizio  di questo paragrafo: perchè la rivoluzione russa vittoriosa sui suoi nemici esterni grazie alla fortunosa presenza dei tre coefficienti rivoluzionari, fu alfine vinta dai suoi nemici interni, cioè dalla sua stessa controrivoluzione? La ragione, ci sembra risieda nella debolezza di quegli stessi tre coefficienti rivoluzionari: debolezza della minoranza-agente in particolar modo nella sua attrezzatura organizzativa ed ideologica, debolezza delle grandi masse in particolar modo nel loro indirizzo rivoluzionario in senso socialista, debolezza  della crisi della società borghese sia su piano nazionale russo sia su piano internazionale.
Ciò non toglie che proprio in Russia, in rapporto agli altri paesi, questi coefficienti fossero così poco deboli da provocare una rivoluzione vittoriosa, ma ciò non impedisce nondimeno che essi non fossero neppure tanto forti da garantire il completo successo dell'atto rivoluzionario. E' su questi elementi che noi dobbiamo concentrare il fuoco della critica alla ricerca dei perchè e  non del come della sconfitta.
Non è con le romanzesche inchieste sui tradimenti in genere attribuiti ad un uomo o ad un gruppo di uomini (dei quali si sopravvaluta la potenza personale in tal guisa da farne addirittura i dèspoti della storia), non è con i vaniloqui psicoanalitici sul cesarismo o sul bonapartismo innato od acquisito, che si può dare una seria spiegazione della sconfitta della rivoluzione russa. Una tale indagine sarebbe ancora volgarmente propagandistica, sia pure in senso antiboiscevico.
Infatti tutta la catena di elementi soggettivi che segnano la progressiva decadenza della rivoluzione russa sono riducibili a due soli elementi obiettivi - uno di tempo ed uno di spazio -  che dovevano pur trovare i loro interpreti nella storia:
1)  essere la rivoluzione russa scoppiata in una fase in cui l'imperialismo nel suo complesso si manteneva ad uno stato disperso e relativamente poco concentrato, risentiva le interferenze dell'epoca ad esso precedente, si sviluppava in modo ineguale e sconnesso nei vari paesi del mondo;
2) essere la rivoluzione russa scoppiata in una regione relativamente limitata, dove il capitalismo era scarsamente progredito e dove a fianco dell'economia capitalistica permanevano larghe fascie ad economia feudale precapitalistica.
Queste condizioni, che strettamente si intrecciavano, non potevano che maturare e produrre in Russia un tipo ibrido di rivoluzione, la quale se ad un dato momento tenta di  tradursi in  termini schiettamente socialisti,  si  schiaccia contro una realtà che le nega ogni copertura sia al suo interno sia al suo esterno.In questo senso si può parlare di una intima debolezza dell'evento rivoluzionario in Russia.
Cosi se abbiamo una minoranza rivoluzionaria in senso generico, non abbiamo una minoranza omogenea bene organizzata e bene orientata, ma una varietà di minoranze (anarchici, bolscevichi, socialisti rivoluzionari) corrispondente alla stessa eterogeneità delle forze sociali in movimento, una serie di minoranza diversamente orientate fra le quali, la più consistente, quella bolscevica, mancava di una perfezionata e completa teoria sul problema centrale della distruzione dello stato (salvo che non si voglia chiamare "teoria" il sofisma sullo "stato provvisorio"). Evidentemente l'insufficiente esperienza del proletariato non aveva potuto maturare la formazione di una tale teoria così come le condizioni obiettive ne impedivano una coerente applicazione.
Così, se abbiamo la partecipazione delle grandi masse operaie e contadine, questa partecipazione, soprattutto nel settore agricolo, non avviene in senso socialista-espropriatore ma in senso populista-appropriatore. Le masse sono scarsamente penetrate degli ideali rivoluzionari e non esiste un loro rapporto organico con la minoranza agente.
Così infine, se abbiamo la crisi del regime vigente. questa crisi conseguente alla guerra non investe tutta l'organizzazione capitalistica ma ne afferra e paralizza un solo arto, il piu fragile, e resta ad esso localizzata; rompe un solo anello, il meno resistente della catena imperialista e non intacca gli altri. In altre parole tanto la prematurità quanto la localizzazione della crisi, escludendo la rivoluzione mondiale e quindi una affermazione unitaria del proletariato, escludono anche la possibilità che la rivoluzione parzialmente ed ibridamente affermatasi in paese capitalisticamente poco progredito possa espandersi in paesi capitalisticamente più progrediti: favorisce anzi il processo opposto, della pressione di questi paesi sul primo, non tanto per occuparlo quanto per modificarne la interna struttura in senso restauratore e controrivoluzionario.In tal modo la rivoluzione imprigionata in frontiere di Stato, bloccata nella sua fase presocialista, minacciata dalle forze esterne, minata da  quelle interne, agonizza. Non ha da scegliersi che un sepolcro e dei becchini. Trova il suo sepolcro in una corazza di acciaio ch'essa finge di costruirsi per la sua difesa ma nella quale asfissia i suoi ultimi aneliti di riscosssa. Incontra i  suoi  becchini in una nuova classe di burocrati e di funzionari ritornanti al potere i quali in dieci anni di dittatura ne affossano definitivamente il cadavere.
Ed ora osserviamo le successive tappe di questa ritirata: la prima tappa che conduce alla liquidazione dei consigli ed a Kronstadt; e, grazie allo schiacciamento di ogni opposizione dentro e fuori del partito bolscevico, crea le basi per la seconda tappa: la NEP
In questo secondo periodo fino alla morte di Lenin si fondano i presupposti organici per l'avvento della burocrazia al potere e per la completa restaurazione del capitalismo, realizzata dallo stalinismo attraverso una spietata lotta interna dalla morte di Lenin all'inizio del primo piano quinquennale che segna altresì il ritorno della Russia nell'orbita dell'imperialIsmo.
Il declino della rivoluzione russa si inizia proprio il 7 novembre 1917, giorno della vittoria, quando le masse operaie agitate mobilitate lanciate nella lotta dietro la parola d'ordine "Tutto il potere ai sovieti " si trovano defraudate del successo e del diretto esercizio del potere che ne conseguiva, da un tipico caso di sostituzione di persona giuridica: è infatti il partito bolscevico e per esso il suo comitato centrale che nei momento cruciale si sostituisce ai consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, avocando a sè il potere e dichiarandosene l'unico e massimo depositario.La formula "tutto il potere ai sovieti" si era andata sfaldando lungo il suo stesso cammino per cui ad un certo punto non era stato il partito a sgombrare il terreno al consigli per il loro autogoverno, ma erano stati i consigli ed il loro comitato militare che avevano sgombrato il terreno al partito bolscevico per la sua dittatura. Il partito prendeva così la sua rivincita; se nei mesi precedenti i consigli avevano talvolta preso la mano al partito, ora è il partito che strappa ai consigli l'iniziativa ed afferma la sua totale egemonia. Ed i consigli come nel periodo pre-insurrezionale avevano servito come un mito per lo scatenamento delle masse (Tesi di aprile), nel periodo post-insurrezionale servono ancora come mera simbologia (prima costituzione sovietica) per illudere ulteriormente le masse circa una loro presunta sovranità.
In realtà la rivoluzione bolscevica si avvia ormai sul binario della restaurazione, da una parte riutilizzando intere parti della vecchia macchina statale non interamente distrutta, dall'altra ricomponendo queste parti sulla sagoma dello stato tradizionale di classe per niente rifiutato o superato.La teoria della dittatura provvisoria del proletariato - dittatura che per sua stessa natura non poteva essere provvisoria ma permanente e crescente e che, sempre per sua natura, non poteva essere esercitata dal proletariato ma inesorabilmente sul proletariato - veniva ripresa di peso dalla letteratura socialdemocratica e trasportata in Russia a giustificare come errore teorico una serie di errori pratici le cui radici, d'altronde affondate nella dura realtà non potevano essere obiettivamente estirpate se non grazie ad un più vasto e più profondo sommovimento rivoluzionario mondiale.
Di qui la svalutazione dei sovieti, già sorti dalla rivoluzione del 1905 come forme di democrazia operaia ed ora ridotti al ruolo di organi locali e periferici dell'apparato statale, nonchè svuotati di ogni contenuto rivoluzionario. Di qui lo sterminio dei più leali e generosi e fedeli realizzatori del 1917 rosso come gli anarchici ed i socialisti rivoluzionari. (Nota:dedicheremo all'esperienza  anarchica in Ucraina una intera parte della P.E.A.).(N.d.R. questo lavoro non è mai stato in realtà fatto, in quanto il progetto originario della P.E.A. si è fermato solo a queste due dispense che pubblichiamo).
Di qui la estrema centralizzazione dello stato e del partito fino ad ammortizzare o annientare ogni tentativo volto a ristabilire la rivoluzione sul pernio del suo equilibrio.
In campo marxista si levano voci autorevoli como quelle di Rosa Luxemburg e di Hermann Gorter contro l'evidente processo di involuzione reazionaria favorito dalla politica bolscevica. E nel 1921 all'interno dello stesso partito bolscevico si hanno visibili sintomi di questo disagio: prima le proposte di Trotski per l'assunzione dei sindacati ad un ruolo dirigente nella vita dello stato (il che comportava un indebolimento della influenza del partito ed un rafforzamento della base operaia del regime); quindi il sorgere della frazione dl Schljapnikov e di Lutovinov, detta anche della "opposizione operaia" che sostiene apertamente un ritorno alla autonoma gestione della vita produttiva da parte de sovieti; ed infine l'insurrezione di Kronstadt, estremo soprassalto della rivoluzione morente, che fissa nel suoi quindici punti alcune condizioni per salvare la vittoria dell'ottobre da un inevitabile termidoro controrivoluzionario: libertà di stampa e di parola, lirbertà di organizzazione per gli anarchici e per i soclalisti rivoluzionari, nuove elezioni dei consigli, liberazione di tutti i detenuti politici rivoluzionari, limiti all'invadenza del partito bolscevico.Queste le richieste che si levano da Kronstadt, culla della rivoluzione e che vengono sepolte insieme ai loro strenui  difensori dalle cannonate di Trotski e di Tukacevsky.Ora l'esperimento, l'avventura, il ripiegamento della NEP possono avere libero corso senza sollevare obiezioni e resistenze all'interno del fronte rivoluzionario disfatto, all'interno del partito, liquidato nella sua efficienza critica. Ora tutte le sterzate di una politica opportunista ed utilitaria possono passare dal campo delleiIpotesi sul terreno della realtà senza provocare una ripresa della rivoluzione socialista contro il potere bolscevico antisocialista.Oramai è lo Stato che si deve salvare, non più la rivoluzione.Ormai si può rinunciare alla rivoluzione mondiale, si può rinunciare all'edificazione del comunismo pur di salvare lo Stato, la sua unità, il suo prestigio.
Se la NEP è determinata dal peggioramento della situazione internazionale in campo operaio, essa a sua volta provoca un  ulteriore  peggioramento di questa situazione in senso generale ed in quanto postula una nuova politica estera dell'URSS, politica che tende all'intesa con gli stati capitalistici ed al tradimento del proletariato mondiale, ed in quanto soprattutto analogamente comporta una pericolosa sosta nel divenire socialista in Russia.E' nel corso di questa pericolosa sosta che si assiste, di pari passo col rifiorire del capitalismo e del nazionalismo nella serra dello stato russo, alla formulazione di nuove teorie che tolgono alla "nuova politica" ogni carattere tattico, transitorio, contingente e ne elevano i principi a definiti canoni ideologici.
Ecco che nella dottrina bolscevica i remoti fermenti piccolo-borghesi di vago populismo (politica contadina) e di vago patriottismo (politica nazionale) congiunti alla concezione giacobina e grande-borghese della "dittatura", trovano sbocco, dopo la loro effimera apparizione in fase insurrezionale (vedi le parole d'ordine "spartizione della terra" e "autodecisione dei popoli") nella nuova politica economica e nella nuova politica estera. Lenin morendo accetta e sottoscrive questi errori con tutte le sue conseguenze.Spetterà a Stalin sviluppare implacabilmente questi errori fino alla conseguenza ultima della controrivoluzione.
Ma come il dato della dittatura del partito si e mutato nel dato ben più vistoso e corpulento della dittatura della burocrazia, cioè di una nuova classe armata contro tutto un proletariato disarmato così l'originario capitalismo della NEP supererà se stesso (espropriazione dei kulaki) esaltandosi a capitalismo di stato e l'originario nazionalismo sovietico, in principio impegnato alla costruzione del "socialismo in un solo paese" ed indifferente alle sorti del proletariato mondiale, passerà poi all'offensiva esaltandosi ad imperialismo, aggiogatore di partiti e di stati "operai" al carro della sua egemonia.
Su questo sfondo di disfatta perdono ogni importanza le cronache della politica interna moscovita. che registrano gli episodi, le manovre, gli scontri, le combinazioni, i ripieghi delle varie frazioni bolsceviche candidate ad assumere in proprio l'imbalsamazione della vittima comune.La contesa fra il blocco dei gruppi Bukharin-Rikov-Tomski e Stalin-Zinoviev-Kamenev da una parte ed il gruppo di Trotski dall'altra;  più tardi la campagna sferrata dal blocco del gruppo Stalin col gruppo Bukharin-Rikov-Tomski contro il nuovo aggruppamento Zinoviev-Kamenev-Trotski, infine dopo la sconfitta di Trotski, l'offensiva del gruppo Stalin ora spalleggiato da Zinoviev-kamenev contro il gruppo Bukharin-Rikcov-Tomski: ecco gli episodi salienti del corso storico che conduce prima al trionfo delle tesi "per il socialismo in un solo paese"  al XV congresso del partito bolscevico (dic.1927) e poi al lancio del primo piano quinquennale al XVI congresso del partito bolscevico (apr.1929).E' il gruppo che meglio interpreta la spinta "capitalistica" del nuovo stato di classe quello che prevalendo su tutti gli altri si attribuisce il compito di pianificare il superlavoro ed il superafruttarnento, il  ripristino del privilegi abbattuti e la legittimazione dei nuovi interessi costituiti, ed infine la fame la galera la morte "per la patria socialista".

                                               
6) Il dopoguerra rosso.

Per "dopoguerra rosso" si intende generalmente quell'agitato decennio che ha il suo tortuoso inizio nella rivoluzione russa del 1917 ed il suo termine rinale in quell'anno 1927 durante il quale la cronaca  registra le sanguinose repressioni di Canton e di Vienna e la storia segna una importante svolta nello sviluppo del movimento operaio mondiale.
In questo periodo tutto il mondo capitalista dovette incassare i tremendi  contraccolpi della sua  prima guerra mondiale mentre il proletariato, dopo una densa esperienza di lotta, dovette assistere al fallimento della sua offensiva di classe.
In ogni paese infatti la guerra aveva suscitato la prima grande azione internazionale contro il capitalismo imperialista: in Germania, in Baviera, in Ungheria, in Italia, in Bulgaria perfino in Spagna  ed in Cina, nei paesi coloniali d'Africa e d'Asia, negli stessi Stati Uniti d'America s'era alzata la rivolta o la protesta proletaria.
In GERMANIA, paese vinto ma non militarmente occupato dai vincitori (perciò in ideali condizioni prerivoluzionarie, tipo Russia) abbiamo il ciclo completo della rivoluzione borghese. Dopo gli scioperi,  dopo gli ammutinamenti ai primi di novembre la rivolta militare alle frontiere e la rivolta operaia all'interno si concludono nella fuga del Kaiser, nella  caduta del governo costituzionale di Max Von Baden, nel crollo del vecchio regime imperiale ed infine nella nascita del nuovo regime repubblicano.
La rivoluzione punta verso il socialismo. Dovunque sorgono consigli di operai, di contadini, di soldati. Le masse operaie si sono andate radicalizzando a sinistra, staccandosi dal. vecchio e compromesso partito  socialdemocratico per  orientarsi verso  il  partito socialdemocratico "indipendente" e verso  la sua ala "sinistra"  detta dei "capitani rivoluzionari". I gruppi più avanzati vanno oltre, si stringono intorno allo "Spartakusbund" (Lega di Spartaco), la sola formazione politica che sotto la guida  di Carlo Liebnekt e di Rosa Luxemburg, abbia tenuto una condotta coerente di fronte alla guerra imperialistica.
Altri gruppi di sinistra sono quelli dei "socialisti internazionali di Germania" ed i "rivoluzionari  uniti " forti soprattutto a Brema e ad Amburgo.
Ma il timone del potere è afferrato dai due partiti della socialdemocrazia con un "Consiglio dei  Commissari del Popolo" composto da sei membri  (Ebert, Scheidemaun, Landsberg del SPD e Haase, Dittiman e Barth dell'USPD). Restano deliberatamente fuori l'ala sinistra degli "indipendenti" e   gli "spartachisti". Questi due gruppi e principalmente il secondo non intendono trascinarsi sul sentiero della democrazia borghese: vogliono che tutto il potere passi ai consigli ed alla loro assemblea nazionale.
E sebbene al primo congresso nazionale dei Consigli essi si trovino in minoranza chiedono che venga dissolto il vigente Consiglio dei commissari del popolo e che esso venga sostituito da un nuovo Consiglio subordinato all'organizzazione dei Consigli.
Ma Il congresso respinge questa ed altre istanze. Dopo la trasformazione dello Spartakusbund in  Partito Comunista di Germania (29 dic. 1918 - 1 genn. 1919), dopo una serie di eccidi operai in molte città della Germania, consumati all'ombra del  governo provvisorio, alla metà del gennaio del 1919, alla vigilia delle elezIoni per il Reichstag (dalle quali gli spartachisti hanno deciso di astenersi) governo socialdemocratico ed opposizione operaia vengono al ferri corti: a Berlino scoppia un'insurrezione ma per mano dl un ministro socialdemocratico, Noske, essa viene violentemente stroncata.
Carlo Llebnekt, Rosa Luxemburg e molti altri operai spartakisti cadono trucidati nel corso della repressione.La rivoluzione socialista è sommersa.
Dopo il gennaio 1919 la situazione si sposta gradualmente verso destra. La uscita dal governo degli "indipendenti"  sostituiti più tardi nella collaborazione con la socialdemocrazia dal " centro " cattolico, la dissoluzione dei Consigli, il sanguinoso eccidio del gennaio 1920, il putch dl Kapp del marzo 1920 seguito invece che da misure antireazionarie, da nuove misure repressive contro la vittoriosa difesa antiputschista degli operai in Wetfalia ed In Renania, ecco le tappe di questo inesorabile slittamento controrivoluzionario.
Non per questo le masse possono considerarsi prostrate: ne danno una prova tanto con la pur disgraziata sommossa di Mansfeld nel marzo 1921, quanto con la malcondotta azione insurrezionale che si conclude nella tragica Comune di Amburgo dell'ottobre 1923 (in entrambe queste azioni sono presenti le sinistre radicali, già portatesi fuori del partito comunista tedesco).
Ma dopo il 1923 con l'elezione di Hindemburg alla presidenza, con il completo passaggio del governo nelle mani del centro-destra, con il nascere ed il progressivo affermarsi del partito nazionalsocialista, ogni possibilità di ripresa è infranta da una più dura ed avversa realtà

In BAVIERA, regione che possedeva una certa autonomia dinastica ed amministrativa nella Germania Imperiale, la rivoluzione del 1918 rovescia la Casa degli Wittelsbach ed instaura la Repubblica dei Consigli sotto la presidenza del socialdemocratico Kurt Eisner.
Ma la socialdemocrazia bavarese occupa una linea che passa molto a sinistra della linea del socialdemocratici berlinesi. Pur non mirando alla immediata instaurazione del socialismo. Eisner è sinceramente per la pace, per l'autogoverno del Consigli, per la democrazia operaia.
La repubblica dei Consigli attraversa in Baviera quattro rapide fasi: la prima dalla rivoluzione del 7 novembre all'assassinio di Eisner da parte di un aristocrato reazionario, il conte Arco, la seconda dallo scioglimento della dieta da poco eletta alla presa diretta del potere da parte dei Consigli sotto il governo Hoffman, a terza con un tentativo di costituzione della repubblica socialista da parte dei socialdemocratici massimalisti, la quarta con lo stesso tentativo ripetuto dagli anarchici(Landauer, Muhsam. Toller) e dai comunisti (Levinè, Levien).
Questi due ultimi tentativi vengono stroncati dall'intervento del governo centrale di Berlino nell'aprile 1919 e due delle maggiori figure della rivoluzione, l'anarchico Landauer e il comunista Levinè, vengono assassinati.

In UNGHERIA la rivoluzione si annuncia con chiari sintomi: le manifestazioni per la pace del  1 maggio 1917, l'incontenibile eco della non remota rivoluzione russa vittoriosa, la nascita dei Consigli operai, il grande sciopero del giugno 1918. QuI è il "Gruppo Operaio Rivoluzionario" ideologicamente  situato fra il sindacalismo di Erwin Szabò ed il bolscevismo di Bela Kun che prende l'iniziativa.
Il 21 marzo 1919, dopo la caduta del vecchio regime e dopo un periodo di governo democratico del  conte Karoly, viene proclamata la Repubblica Ungherese dei Soviety con un governo misto di socialdemocratici e di comunisti.
Ma dopo quattro mesi di agitata esistenza, la rivoluzione ungherese, tradita dai socialdemocratici,  sconvolta da crisi interne, accerchiata da truppe  ceche e rumene, deve soccombere di fronte alla marcia di quest'ultime su Budapest (10 agosto 1919).Sulle sue rovine si erige il regime conservatore dell'ammiraglio Horty.

In AUSTRIA dopo la cacciata degli Asburgo e la  proclamazione della Repubblica sorsero i Consigli degli operai e del soldati, ben presto integrati nell'ordine costituito dal partito socialdemocratico al  potere. Ciò non impedì alla borghesia austriaca, rappresentata dal partito cristiano-sociale di monsignor Seipel e dalle Heimwehren di Steidle e di Pfrimer di portare a termine un lento processo dl restaurazione, terminato con la sanguinose giornate  di Vienna del luglio 1927.

In ITALIA, paese vincitore ma più di ogni altro sofferente per le conseguenze della guerra e insoddisfatto per i proventi della pace,  la rivoluzione compì passi da gigante nei primi due anni del dopoguerra, prima con i moti del caroviveri, quindi con lo sciopero generale per i Consigli, ed infine con l'occupazione delle fabbriche.
Ma in questa avanzata che talvolta si sperdeva e si distraeva in mille episodi di violenza individuale o di verbale molestia e che soprattutto si condannava all'impotenza per il subornante equivoco elettorale-riformista, stanno le cause prime del successivo fatale riflusso.
Il moto del caro-viveri del `19 si risolse in un inebriamento massimalista tanto rumoroso quanto inconcludente ai fini di un positivo successo, lo sciopero generale per i Consigli nell'aprile 1920 non si realizzò in pieno per la renitenza del partito socialista, e l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920, pur costituendo la massima penetrazione proletaria nel fronte borghese, non attinse termini risolutivi.
Il  tradimento della CGIL (organizzazione sindacale riformista i cui quadri dovevano poi piegarsi in gran parte al fascismo corporativo)  cui non potevano far da contrappeso le non pletoriche pattuglie del USI (organizzazione sindacale rivoluzionaria rinvigoritasi dopo le bonifiche interne del `15 e del `19), costringendo gli operai a riconsegnare le fabbriche ai padroni, dietro formali e fatue garanzie, spezzò questo estremo assalto rivoluzionario.
L'ultimo atto di quest'anno decisivo si ebbe nel dicembre ad Ancona con i moti contro la partenza di truppe per l'Albania.
Intanto montava il fascismo, forma disperata dl reazione.Contro di esso, appoggiato dall'esercito, sostenuto dalla grossa borghesia e lusingato dalla media, tollerato dal governo, non ostacolato dal clero, non seppero opporre valida resistenza le masse operaie imbottigliate nel P.S.I. che proprio allora precipitava in una crisi gravida di scissioni (da Livorno a Roma, da Roma a Milano).
I gloriosi episodi di resistenza attiva non valsero a frenare la marcia delle squadre fasciste, ingrossate ed incanaglite dalla feccia sociale, protette dalla fobia anti-operaia della borghesia democratica e perfino repubblicana.
Il consenso della Corona e dei circoli vicini alla Corte aprì al fascismo la strada di Roma e del potere, dopo che la rivoluzione aveva dato i suoi ultimi sussulti in proteste e scioperi (ultimo quello generale dell'agosto 1922, promosso dall"Alleanza del Lavoro" blocco di forze di sinistra).
La reazione dell'opinione pubblica di fronte al delitto Matteotti restò nel limiti di un emotivo fremito di folle stanche, subito spento sotto il peso della dittatura.
L'anno 1927, termine del periodo che abbiamo preso in esame, vede in Italia dispersa ogni opposizione, promulgate le leggi eccezionali, funzionante il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato mentre nelle isole giungono i primi scaglioni di confinati politici.

In FRANCIA l'azione rivoluzionaria che aveva le sue logiche premesse nel disfattismo antibellicista contro cui si era già scatenata l'ira omicida di Clemenceau, fu freddata dalla ventata di sciovinismo che s'impadroni dell'opinione pubblica francese in seguito alla vittoria.
Solo Il 1 maggio 1919 di fronte al divieto posto dal governo ad una grande manilestazione operaia abbiamo il primo segno di ripresa della lotta di classe e la invocata fine della collaborazione fra CGT e governo (union sacrèe).
Nel giugno dello stesso anno scoppia lo sciopero dei metallurgici, nel febbraio 1920 lo sciopero dei ferrovieri ed infine nel maggio 1920 un grande sciopero generale politico, vertice di una ripresa subito infranta dalla discordia imperversante nelle organizzazioni economiche e politiche del proletariato francese e dal sollecito ripiegamento della lotta sul piana parlamentare.

In INGHILTERRA il dopoguerra porta dei profondi cambiamenti nell'indirizzo politico, nell'azione sindacale, nelle stesse organizzazioni del movimento operaio. in questo clima di rinnovamento si realizza nel settembre 1919 il grande sciopero del ferrovieri inglesi qualificati nell'occasione da Lloyd George  "un pugno di anarchici estremisti"  che trascina per interdipendenza tecnica o per solidarietà morale altre categorie ed immobilizza la vita nazionale. Negli anni successivi 1920 e 1921 entrano in vasta agitazione i minatori. Dopo il 1921 pero anche l'Inghilterra torna alla normalità dell'indiscussa egemonia del capitale, salvo il nuovo movimento minerario del 1926.

In BULGARIA il sollecito ritiro del paese dalla guerra (settembre 1918), l'abdicazione di re Ferdinando e soprattutto la dittatura del populista-agrario Staznbulisky,storna  nell'immediato  dopo guerra ogni minaccia insurrezionale. Solo nel 1923 si apre una profonda crisi nella vita politica buIgara: nel marzo si verifica un eccidio di massa a Yambol nel quale perdono la vita parecchie diecine di anarchici e di lavoratori, nel giugno il governo di Stambulisky è rovesciato dal  circolo reazionario Zveno, contro il quale, arbitro del potere, resistono per vari mesi anarchici (attentato della cattedrale di Sofia) e comunisti. L'allarme  illegale continua fino al 1931, anno del ritorno ad un regime democratico temperato. 
           
In SPAGNA, paese rimasto estraneo alla guerra ma non estraneo alle sue ripercussioni, la rivoluzione batte alle porte nell'estate 1917 con sommovimenti popolari e con scioperi operai condotti dalla giovane C.N.T. (organizzazione anarco-sindacalista).
Il governo riesce ad incassare e la pressione si allenta negli anni seguenti. Nel 1921 l'uccisione del presidente del Consiglio Dato e la cattiva piega presa dalle faccende militari al Marocco riaprono una crisi alla quale la monarchia sfugge solo con l'instaurazione della dittatura militare di De Rivera (1923-1930).

In PORTOGALLO  il periodo della  instabilità connesso al "dopoguerra rosso" è chiuso nel 1927 dalla dittatura del generale Carmona che fonderà un particolare  tipo di regime  conservatore, bene accetto alla borghesia, benvisto dalla chiesa, tutelato dall'esercito, protetto sia dagli stati fascisti che dalle democrazie antifasciste. E' a queste generali simpatie che esso deve la sua lunga ed ignobile esistenza fino al giorno d'oggi.

Spostando il nostro occhio fuori d'Europa vediamo:

In CINA la rivoluzione non ètanto legata al dopoguerra quanto alla formazione dello stato moderno cinese cui la recente guerra (nella quale la Cina e intervenuta a fianco degli alleati) e la dibattuta pace (rinnovati contrasti coi Giappone per la Sistemazione delle colonie ex-tedesche) hanno assegnato più gravi responsabilità
Intanto la formazione di un rilevante proletariato industriale, lo aggravarsi dell'endemica crisi agraria, la crescente ingerenza del capitale straniero nell'economia cinese conducono la Cina   ad una svolta decisiva nell'immediato dopoguerra: e precisamente alla fondazione  di un movimento politico a fondo popolare-nazionale, il Kuomintang, nel quale si intrecciano esigenze sociali ed esigenze patriottiche, cementate insieme dalla forza coesiva dei giovani gruppi della borghesia cinese.
Così in Cina, eretta a repubblica nel 1912, dopo un lungo periodo di caos interno, nel corso del quale le imperversante guerra civile crea un groviglio di interessi anomali (di avventurieri o di gruppi di  avventurieri) senza  riflettere precise istanze di classe, si avvertono le prime scosse di rinnovamento per merito del Kuomintang che occupa la parte meridionale del paese
E' a Canton che nel 1919 questo partitoè fondato da Sut-Yat-Sun sulla base dei "tre principi": indipendenza dallo straniero, riorganizzazione democratica dello Stato, benessere sociale con particolare riguardo alle classi inferiori.
Grazie all'appoggio dei comunisti ed alla loro  entrata nel Kuomintang, grazie soprattutto al sacrificio di ogni pregiudiziale di classe (agitazioni, scioperi, marcia verso il socialismo) sull'altare della causa nazionale, il Kjuomlntang, dopo la morte di  Sut-Yat-Sun, riesce con una vittoriosa marcia verso il Nord negli anni 1926-'27-'28 ad unificare tutta la  Cina.
Ma già nel 1927 Ciang Kai Chek, dopo aver usufruito dell'appoggio sovietico e dopo aver utilizzato la tregua interna proclamata dai comunisti, si volge contro di essi, ne scioglie l'organizzazione, ne schiaccia i conati dl resistenza (aprile 1927).
Egli ha ormai operato una netta conversione a destra, verso la dittatura della nuova classe dirigente. Gli operai di Canton, scesi in lotta nel dicembre  1927  vedono sfasciati i loro "sovieti" dalla macchina militare nazionalista e suggellano col loro sangue la fine del "dopoguerra rosso" in Cina.

Negli STATI UNITI D'AMERICA, la rivoluzione russa e la fine del conflitto perturbarono l'opinione pubblica di quel paese: il ritorno dei reduci mentre da una parte generava disoccupazione, agitazioni e scioperi dall'altra contribuiva alla formazione correnti   reazionarie-nazionaliste( l'Arnerican Legion).
Lo scoppio di alcuni ordigni nel maggio e nel giugno 1919 crearono una psicosi di terrorismo antioperaio, una diffusa fobia contro i "rossi". Cominciarono le deportazioni degli indesiderabili, fra cui ricorderemo  Alessandro Berkmann, Emma Goldmann, Luigi Galleani. L'affare Elia e Salsedo (due anarchici arrestati e torturati, dei quali il primo fu deportato ed il secondo si gettò dal quattordicesimo piano del Dipartimento di Giustizia) sollevò raccapriccio e proteste.
Si era intanto alla vigilia di un caso ben più clamoroso:  il caso Sacco e Vanzetti. Questi due anarchici italiani vennero arrestati nel 1920 sotto l'accusa di omicidio e, malgrado le prove innumerevoli della loro innocenza, la loro agonia durò sette anni fino al 1927.
Il clima politico intossicato dalla reazione, favori le manovre della magistratura per l'incriminarione e la condanna a morte dei due anarchici. Malgrado ciò, nel corso di quegli anni, più volte l'opinione pubblica americana e mondiale si contrasse in  appassionate    manifestazioni di  angoscia per Sacco e Vanzetti, solidarizzò con Sacco e Vanzetti:scioperi generali nell'America Latina, marce di popolo sotto i consolati e le ambasciate americane in Europa, assalto di operai alla sede della Società delle Nazioni a Ginevra, manifestazioni di folle a Mosca ed a Tokio.
Ma Sacco e Vanzetti furono elettroassassinati il 23 agosto 1927. Il capitalismo americano era placato, dopo la tremenda paura passata negli anni dell'immediato dopoguerra.

L'ESPERIENZA DEI CONSIGLI. - Il fatto nuovo del dopoguerra rosso è dato dai Consigli, tipo inedito d organizzazione operaia, strettamente legato all'unità aziendale, alla fabbrica.
Ed i Consigli rappresentano fra il 1917 ed il 1922 un vasto movimento che ha la sua estrema versione politica-rivoluzionaria nei Soviet degli operai, dei contadini e del soldati e la sua estrema versione economica-riformistica nel Consigli di gestione o di controllo.
La formazione intermedia, quella dei Consigli dl Fabbrica, rappresenta il modello esemplare, quello sul quale è venuta poi costruendosi una particolare teoria dei Consigli e quindi una determinata corrente di pensiero rivoluzionario.
Non è difficile seguire il diagramma storico di questa "idea"; scaturita dalla rivoluzione russa del 1905, risorta come travolgente parola d'ordine dl massa fra il febbraio e l'ottobre 1917, illumina la Russia e l'Europa, guida l'azione dello Spartakusbund in Germania negli ultimi mesi del 1918 e nei primi del 1919, traccia come una meteora le rivoluzioni di Monaco, di Vienna e di Budapest, si sposta in Italia indirizzando l'azione del movimento operaio torinese e dei suoi gruppi d'avanguardia, riappare in Russia con l'"opposizione operaia" e la insurrezione di Kronstadt del 1921, si raccoglie intorno ai gruppi di opposizione in Germania,  in Olanda, in Francia dove viene ulteriormente definita, mentre in Inghilterra segue con il socialismo delle Gilde (versione politica) e con gli Shop Stewards (versione economica) un autonomo sviluppo insulare.
Questa idea, a prescindere dalle sue variantI ed anche dalle sue anomalie locali, si riassume da una parte nella critica dello stato, del partito, del parlamento, del sindacato e dall'altra nella formazione di un nuovo strumento di lotta rivoluzionaria impostato sulla fabbrica.   Contro lo Stato i Consigli, in quanto esso rappresenta il massimo istituto di conservazione di una società divisa in classi, destinato ad essere dal movimento dei Consigli svuotato di ogni suo contenuto reale nel corso di una rivoluzione instauratrice di una società senza classi.
Contro il Parlamento, organo e sede di collaborazione fra le classi, rappresentazione inadeguata ed artificiale dei rapporti correnti nel paese, risucchio di ogni spinta eversiva contro l'ordine capitalista.
Contro il Partito, di per sè insufficiente ad adempiere il compito rivoluzionario e per lo più già compreso per il suo programma di potere, per la sua tattica, per la sua organizzazione, entro il giuoco dell'ordine costituito.
Contro il Sindacato, corpo ormai estraneo alla classe operaia, burocrazia annessa all'apparato statale. pernio di conservazione e di equilibrio nei rapporti di classe.
I Consigli, nel pensiero dei loro ispiratori e nell’azione dei loro pionieri, stanno al di là di questa quadruplice linea stato-parlamento-partito-sindacato e costituiscono un passo in avanti nell'ascesa della classe lavoratrice.
Positivamente essi preparano, tecnicamente e moralmente i lavoratori alla gestione dell'azienda, raccolgono nei loro seno tutti gli addetti alla fabbrica e ne cementano la solidarietà attiva, colpiscono nei suoi  centri motori l'organizzazione capitalistica, predispongono sul piano produttivo la complessa struttura della società socialista.
Fu grazie a questi elementi positivi che negli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale, la formula dei Consigli guidò le lotte dei lavoratori di mezza Europa; e grazie a questi stessi elementi essi restano la creazione più originale e più genuina del proletariato in  cammino.

7) La   IIIª Internazionale, artefice della  disfatta operaia.

Il nome della III Internazionale è legato ad un ciclo dl disfatte del proletariato mondiale, disfatte che culminarono nella seconda grande guerra, marciante sul dorso di una classe operaia ormai inebetita, prostrata ed incatenata al carro dell'imperialismo.
La III Internazionale nata a Mosca nel marzo 1919, in un clima di operante solidarietà operaia attorno alla rivoluzione russa, muore a Mosca nel maggio 1943 con un atto di decesso che ne sancisce il dissolvimento, d'altronde già da tempo consumato.
La decisione è emessa, in conformità ad un mortale centralismo burocratico, non da tutti i partiti membri dell'organizzazione ma da un "praesidium" del comitato esecutivo ed avallata dai rappresentanti delle sezioni italiane, spagnola, finlandese, rumena ed ungherese.
I motivi addotti valgono solo a confermare che, come nel corso della sua non gloriosa esistenza, la terza Internazionale aveva sostenuto un ruolo passivo sul piano di manovra dell'imperialismo russo così perfino con la sua morte, conclamata a gran voce ai quattro venti, essa doveva fornire un ennesimo pretesto propagandistico alla commedia della  amicizia fra le grandi potenze cobelligeranti.
Nella storia della III Internazionale occorre distinguere tre momenti: un momento formativo che s'inizia con la disonorevole fine della Il Internazionale nell'agosto 1914 e che giunse fino alla fondazione  ufficiale della nuova organizzazione al I congresso (marzo 1919), un momento attivo che si  sviluppa dal I congresso (marzo 1919) al VII congresso (luglio-agosto 1935), un momento risolutivo che s'inizia subito dopo il settimo congresso ed, in corrispondenza con la crisi politica europea, giunge, senza un'ulteriore celebrazione di congressi, fino  allo scioglimento ufficiale dell'organizzazione (maggio 1943).
Qui ci interesseremo del momento attivo, avendo già accennato o proponendoci di accennare in altri  paragrafi  alle fasi storiche qui non   prese in considerazione.
Ma nello stesso momento attivo occorre distinguere tre periodi (così essi vengono distinti ed enumerati anche nella terminologia interna dei partiti comunisti): il "primo periodo" che  corre  dalla fondazione agli anni 1921-1922, il "secondo periodo" che corre dagli anni 1921-1922 agli anni 1927-1928, il "terzo periodo" che corre dagli anni  1927-1928 agli anni 1934-1935.

IL PRIMO PERIODO - Alla data del 24 gennaio 1919 il lavoro preparatorio per la fondazione della III Internazionale è terminato e il partito bolscevico russo insieme a rappresentanti polacchi. lettoni, ungheresi, finlandesi, austriaci, balcanici ed americani dirama un appello-invito per il congresso da tenersi a Mosca nel marzo venturo.
L'invito non è limitato ai soli aggruppamenti già politicamente differenziati come il Partito Comunista di Germania (sorto al congresso di Berlino del 30 dicembre 1918-1gennaio 1919 dalla fusione dello "Spartacusbund". ex frazione del Partito Socialdemocratico Indipendente con il gruppo dei"socialisti Internazionalisti di Germania" ), ma anche alle frazioni dl sinistra dei vari partiti socialisti e ad alcune correnti ed organizzazioni sindacali.
Anche sotto l'aspetto ideologico il documento di invito è, nella sua indeterminatezza,  abbastanza aperto. In esso intatti si alternano le due maggiori voci della  sinistra rivoluzionaria  europea:   quella spartachiana e quella  bolscevica ( nel   preambolo stesso si precisa che le tesi enunciate sono un elaborato e della Lega "Spartacus" di Germania e del Partito Comunista Russo).Tanto che ora vi si parla di "democrazia operaia",di "autogoverno delle masse da parte di esse stesse per mezzo dei loro organi eletti " e si attaccano a fondo la democrazia borghese, il parlamentarismo e la burocrazia statale; ed ora invece si inneggia alla" conquista del potere ", alla "dittatura proletaria", allo "stato operaio-tipo".
Da una parte si parla della necessità di fondare una Internazionale operaia rivoluzionaria. dall'altra s dichiara già, categoricamente, che la nuova organizzazione dovrà assumere il nome    di "Internazionale comunista" .
Tuttavia il clima di passione  rivoluzionaria e di entusiasmo soviettista che arroventa mezza Europa, fa passare in secondo piano le ragioni di dissenso e porta in primo piano, insieme alle esigenze della lotta concreta. i motivi di affinità  e di consenso.
Così si spiega l'adesione all'Internazionale nascente della C.N.T. spagnuola. dell'U.S.I. italiana e delle  correnti   minoritarie della  C.G.T.   francese.
Così si spiega la partecipazione ai congressi di Mosca di quegli anni di missioni sindacaliste-rivoluzionarie italiane, francesi, spagnole e sarà il mancato ritorno di una di queste missioni, Lefevre-Lepetit-Vergeat, misteriosamente dispersasi oltre il circolo polare artico, a provocare il peggioramento di questi rapporti).
Pertanto il primo congresso della III Internazionale si conclude con una serie di tesi sull'indirizzo ideologico dell'I.C., più o meno estensibili a tutti gli aggruppamenti in essa associati, e con alcune risoluzioni sui rapporti con le altre correnti socialiste  (a proposito    della contemporanea conferenza di Berna, per la ricostituzione della Il Internazionale), sulla situazione politica internazionale  e con un  caloroso appello al proletariato mondiale.
In effetti il linguaggio francamente rivoluzionario, l'insistenza polemica per la rottura con i sociapatrioti e con i riformisti, la netta supremazia della causa del proletariato mondiale sugli      interessi particolari dello stato russo, favoriscono l'afflusso di nuove e sane energie verso l'I.C.
Questa situazione di totale apertura a sinistra  dura per tutto il periodo che corre dal primo a]  secondo congresso.  Ma già al secondo congresso del luglio-agosto 1920, pur restando ferma la linea politica dell' I.C.sui problemi della tattica rivoluzionaria (anche in questa occasione si lancia un vigoroso appello all'insurrezione ed alla guerra civile), la sua organizzazione si chiude definitivamente a sinistra. Vengono adottate 21 condizioni per l'adesione all'I.C. le quali se da un lato approfondiscono la frattura con i vecchi partiti socialisti, dall'altro, sia ammettendo solo i partiti comunisti dichiarati, sia escludendo tutte le organizzazioni  sindacali o le loro frazioni (che tuttavia passeranno, alcune per breve tempo,  all'internazionale dei Sindacati Rossi,  Il Profintern, fondata a Mosca nel primo congresso del luglio 1921), finisce per modificare la natura stessa dell'I.C.
Infatti questo irrigidimento conduce da una parte all'espulsione dei partiti socialisti, resa necessaria dopo l'amara esperienza ungherese dove la fusione fra comunisti e socialdemocratici aveva condotto, per colpa di quest'ultimi, al fallimento della rivoluzione, e dall'altra parte comporta il graduale allontanamento di tutte le frazioni, anche a fondo marxista, non concordi con la linea di Mosca.
La I.C. si trasforma da una lega dl partiti e di organizzazioni. così come era nata nel 1919. in  un  superpartito, in  una superorganizzazione centralizzata . Oltre a ciò il secondo congresso segna anche uno spostamento non lieve sul piano ideologico: passano. per volontà del partito bolscevico, le tesi sul parlamentarismo, ed in secondo luogo le tesi sul partito e  sulle questioni nazionali-coloniali. Le tesi sul parlamentarismo, sviluppando gli argomenti contenuti nel saggio di Lenin "L'estremismo, malattia infantile del comunismo" condannano le posizioni dell'astensionismo elettorale, vigilantemente difese dai delegati italiani, tedeschi ed olandesi. Di fronte alla maggioranza leninista i gruppi astensionisti cedono per "disciplina di partito"
La base dell'I.C. subisce un primo colpo, vibratole ad un tempo dalla maggioranza e dalla minoranza, l'una padrona e l'altra serva di una macchina organizzativa che entrambi avevano contribuito a costruire.
Si giunge cosi al terzo congresso del giugno-luglio  1921. congresso che trova  presenti  i grandi partiti comunisti costituiti in Germania, in Francia, in Italia ed appena tollerate le frazioni, in essi o fuori di essi, dissidenti.
A questo punto se noi passiamo in rassegna la vita interna dell'I.C. muovendo invece che dal centro dei congressi mondiali, dalla periferia dei partiti nazionali, notiamo che: in Germania dal 20 ottobre 1919, cioè dal congresso clandestino di Heidelberg del partito comunista  tedesco, la destra capeggiata da Faul Levi in un  primo tempo è riuscita ad espellere dal partito la  sinistra a tendenza libertaria (che da vita al Partito Comunista Operaio Tedesco.   forte   di 60.000  membri ed ammesso, sia pure con riserva e malgrado le proteste del KPD, nella I.C.) ed in un secondo tempo è riuscita ad incorporare la maggioranza del Partito socIaldemocratico Indipendente  pronunciatasi al congresso di Ralle (ottobre 1920 per l'adesione   al partito comunista tedesco. Quindi la stessa direzione di Levi e di Daumig (ex socialdemocratico indipendente) viene liquidata e il timone del partito passa nelle mani di Blander, ritenuto uomo piu ardito e più fido ai voleri di Mosca.
E' sotto la guida di Blander che in Germania si produce la disastrosa "azione di marzo", fallito tentativo di insurrezione operaia nella Sassonia, nel  corso del quale il partito comunista tedesco. di per  sè impreparato dalla precedente "gestione di destra", si trova da una parte lanciato in senso offensivo dagli avvenimentie dall'altra frenato in  senso difensivo dalle sopraggiunte direttive di Mosca ed infine inchiodato alla sconfitta da una direzione insipiente ed incerta;
in Francia al congresso di Strasburgo del partito  socialista (S.F.I.O.. tenuto nel febbraio 1920 viene deciso il ritiro dalla Il Internazionale ma è esclusa altresì l'immediata adesione alla III Internazionale. Nel dicembre dello stesso anno al congresso di Tours si ha pero, sulla base delle 21 condizioni, l'adesione della maggioranza alla Internazionale di Mosca e la fondazione del partito comunista francese (S.F.I.C.). Ma appena costituito. il nuovo partito entra in crisi per la violenta lotta fra la destra, il centro e la sinistra. Fioccano da Mosca  le espulsioni, accompagnate  da interventi ed interferenze ora a favore di questa, ora a favore di quella tendenza (congresso di Marsiglia del 1921). Intanto la scissione politica si ripercuote in campo sindacale e al Congresso di Saint-Etienne dell'agosto 1922. dalla vecchia CGT (entro la quale operavano da tempo i Comitati Sindacalisti Rivoluzionari, composti da   comunisti  e  da   anarchici)  sorgono la nuova CGT e la CGT "unitaria"  (comunisti. anarchici e sindacalisti rivoluzionari); in Italia il partito socialista, dopo la fiammata massimalista del congresso di Bologna del 1919 e la conseguente adesione alla III Internazionale, entra in crisi per il maturato contrasto fra i gruppi della sinistra ( L'Ordine Nuovo di Torino,ill Soviet di Napoli,  i massimalisti  tipo Gennari)  ed  i gruppi della destra  ( Modigiiani, Turati, Treves), il tutto malconnesso dal "centro" serratiano. La crisi precipita dopo l'espulsione del partito sacialista dalla I.C. per inadempienza delle 21 condizioni, la conseguente unificazione dei    gruppi  di sinistra sulla  base della mozione di Imola e le estreme collusioni del centro con la destra. Si giunge cosi al congresso di Livorno (gennaio 1921) dove si realizza la storica scissione e la conseguente fondazione del partito comunista d'Italia. sezione dell'I.C., sulla linea di confluenza degli ordinovisti, dei sovietisti, dei massimalisti di sinistra.
Il nuovo partito si presenta al III congresso con una delegazione omogenea che ha rafforzato, con l'adesione di esponenti della corrente ordinovista (Terracinii) la sua opposizione ad ogni indulgenza ideologica verso destra. Del resto in Italia la crescente tensione polemica nei confronti della socialdemocrazia riformista  ed  il radicale sviluppo della battaglia antifascista, sembrano escludere ogni pencolamento in questo senso.
Ma invece al terzo congresso, chiusa ormai prima sul terreno ideologico (condanna dell'astensionismo, condanna dell' "opposizione operaia", condanna delle "deviazioni anarchiche" sulle questioni del partito e dei sindacati) e quindi sul terreno organizzativo (ventun condizioni e centralismo di struttura) la porta a sinistra, si riapre praticamente, sulla questione tattica del fronte unico, la porta di destra.
In apparenza la proposta del fronte unico con i partiti socialdemocratici  potrebbe sembrare    una questione  di secondaria importanza, se essa, interrompendo bruscamente tutta una linea fino ad allora seguita nei rapporti con quei partiti, non sollevasse il problema      dell'indirizzo  generale dell'I.C.
Infatti sia dal bilancio dell'azione di marzo in Germania sia dalla discussione intorno alla tattica del fronte unico, balza evidente dal terzo congresso che l' I.C. formula una valutazione del tutto nuova della situazione politica e si   appresta ad una svolta, politica, il cui primo passo è  costituito proprio da questa nuova valutazione.
Secondo le tesi interpretative dell'I.C., infatti. il periodo delle rivoluzioni europee iniziatosi nell'ormai lontano 1917sta per chiudersi, almeno provvisoriamente.Il fallimento  dell'avanzata su Varsavia nell'agosto del 1920, il fallimento dell'occupazione delle fabbriche in Italia ancora nei settembre 1920, il  fallimento dell' "azione dl marzo" in Germania nel 1921, provano che il capitalismo è passato da una fase di crisi ad una fase di "stabilizzazione".
Perciò occorre modificare la tattica dei partiti comunisti: passare dall'offensiva alla difensiva (e sotto questo aspetto l' "azione di marzo" è stata un errore). Mezzi al servizio dl questa tattica difensiva sono: l'alleanza con i partiti socialdemocratici, la formazione dl larghi  fronti unici operai, l'azione nei sindacati riformisti. la partecipazione alle opposizioni parlamentari democratiche, la partecipazione a governi "operai ".
Ma trovava corrispondenza nella realtà questa versione interpretativa edita a cura dell'IC.?      No essa non trovava alcun fondamento nella realtà. La situazione permaneva rivoluzionaria in Germania ed in Italia, in misura minore in Francia, in  Austria. in Bulgaria. In  tutti questi paesi i gruppi  egemoni  della conservazione  capitalistica erano ancora debolmente rappresentati da uomini di parte democratica e il movimento operaio continuava a fruire della spinta ricevuta dai contraccolpi della guerra. Se era vero che "la prima fase del movimento rivoluzionario   dopo la guerra era stata caratterizzata da un impulso istintivo, dalla mancanza, di un metodo e di una meta", era pur vero che si doveva ovviare a questi scompensi. elaborando un metodo e non già mutandolo ad ogni stagione, indicando una meta e non già spostandola periodicamente a capriccio.
L'I.C. dava invece per perduta e conclusa una battaglia, che era ancora in pieno sviluppo.     Quali le ragioni di questo travisamento della realtà? Quali le cause del repentino"cambiamento di rotta" ?
La chiave del  problema si  trova nella situazione interna dell'URSS, in rapporto alla situazione  internazonale. Come  abbiamo  già notato in altro paragrafo, l'anno 1921 segna una grande sterzata nella politica interna russa, con la fine del "comunismo di guerra" e con l'inizio della NEP.
E la NEP non fu soltanto una nuova politica economica, ma anche conseguentemente una nuova politica estera.
Dal 1921 l'U.R.S.S. tende ad ottenere il massimo numero di riconoscimenti  del nuovo   regime  da parte dei governi borghesi, tende a concludere il massimo numero di trattati e di accordi commerciali, tende in definitiva, a rientrare nel concerto delle grandi potenze.
Di qui la necessità di por fine ad una compromettente e pericolosa politica agitatoria, di qui la ouportunità di trattare con governi socialdemocratici amici o alleati dei partiti comunisti, di qui la utilità di una generale distensione nei rapporti con la democrazia borghese.
Non importa se il linguaggio ufficiale dell'I.C. conserva l'iniziale abbrivo oltranzista e jusqu'aboutiste:  in effetti il problema della rivoluzione mondiale e già passato all'ultimo comma dell'ordine del giorno bolscevico.
L'evoluzione è facilmente compiuta. Se al terzo congresso il partito comunista russo può prendere l'iniziativa di questo cambiamento di rotta e far passare le proprie tesi, ciò si deve alla ormai attuata trasformazione dell'I.C. da organizzazione operaia mondiale autonoma e superiore agli interessi dei singoli partiti comunisti, a semplice e docile strumento della politica sovietica.
Il partito comunista russo  era riuscito prima sul terreno ideologico, quindi sul terreno organizzativo ed infine sul terreno tattico, ad operare questo graduale processo di trasformazione. Gli avevano resistito in un primo tempo i tedeschi del Partito Comunista Operaio e gli olandesi, fautori del " comunismo dei consigli ",  ma ora gli uni e gli altri si ritirano o vengono espulsi dall'I.C. L'opposizione continua, più o meno sostenuta, più o meno contraddittoria da parte di italiani, francesi, spaguoli, del tutto avversi alla tattica del fronte unico.
Ma anch'essi non resisteranno a lungo. La I. C. ha ormai finito di commettere degli errori, più o meno discutibili. Dopo il terzo congresso essa comincia a commettere dei delitti contro il proletariato mondiale.  Non è più responsabile di questo o di quell'insuccesso: è piuttosto colpevole di un continuato tradimento ai danni del proletariato mondiale.

IL SECONDO PERIODO - Il secondo periodo era stato chiaramente preannunziato al III congresso   dell'I.C. del giugno-luglio 1921 ma esso ha effettivamente inizio con le riunioni del Comitato esecutivo allargato del marzo 1922, nel corso delle quali vengono formulate ed impartite le precise direttive per l'applicazione della tattica del fronte unico.
Votano contro ancora le delegazioni italiana, francese e spagnuola, che aderiranno assai più tardi e  non senza molte tergiversazioni. In Italia il II Congresso del partito comunista tenuto   a Roma nel  febbraio 1922 aveva infatti accettato tesi tattiche contrastanti con la linea dell'I.C. e in Francia il congresso di Parigi dell'ottobre 1922 si pronuncia, sia pure con lieve maggioranza, contro la nuova tattica,  rimettendo al  congresso  mondiale  una eventuale   revisione delle  direttive fondamentali dell' I.C.
In Italia ed in Francia si è favorevoli alla formazione di un fronte unico sul piano sindacale ma non sul piano politico (tipica l'Alleanza del Lavoro in Italia: blocco della Confederazione Generale del Lavoro, dell'Unione Sindacale Italiana e del Sindacato Ferrovieri).
Sul piano internazionale invece la tattica del fronte unico è largamente applicata con la conferenza di Berlino dell'aprile 1922, effettuata dopo il fallimento di due analoghi tentativi a Parigi ed a Francoforte  (febbraio 1922).  Alla  conferenza di Berlino partecipano ora i C.E. delle tre Internazionali: la seconda di Amsterdam con Mac Donald,Vandervelde e Weds, la "due e mezzo" di Vienna con Adler, Bracke e Crispien, la terza di Mosca con Radek, Frossard e Zetkin. Ma dopo laboriose trattative, la conferenza si limita a produrre una dichiarazione generica ed   a suscitare molte polemiche.
Nel novembre 1922 si tiene a Mosca il quarto congresso dell'I.C. E' sul tappeto la questione italiana, il cui esame è reso ancora più difficile e tragico dopo l'avvento della reazione fascista al potere.
Il partito socialista infatti nel suo recente congresso di Roma (ottobre 1922) aveva escluso i riformisti ed aveva deciso di accettare le 21 condizioni dl Mosca. Ma il partito comunista d'Italia aveva a sua volta respinto una adesione collettiva, una fusione in blocco, esigendo l'adesione individuale di ogni singolo  socialista " terzinternazionalista " al partito.
Il congresso dell'I.C. delibera tuttavia altrimenti ed impone la fusione ai comunisti italiani recalcitranti, i quali capitolano ancora una volta per disciplina di partito. Ma Zinovieff, sul piano della tattica del fronte unico, reclama ancora le seguenti contraddittorie obbligazioni da parte dei comunisti italiani: da una parte la liquidazione del riformisino e dall'altra la realizzazione del fronte unico tanto sul piano economico quanto sul piano politico (evidentemente con i riformisti); da una parte l'iscrizione in massa ai sindacati fascisti (abbandonando ovviamente i sindacati riformisti) e dall'altra l'unità di tutti i lavoratori contro il fascismo: da una parte l'ordine dell'offensiva per "un governo di operai e di contadini" e dall'altra il contrordine della difensiva contro l'avanzata fascista,a mezzo     dell'organizzazione degli " Arditi del Popolo"
Questi sei punti   di Zinovieff  provano  quanto fosse già decaduto il livello politico dell'I.C. al suo  IV congresso e quanto fossero aumentati l'opportunismo e la confusione sul piano teorico e tattico.
La fusione con i socialisti "terzinternazionalisti" avvenne parzialmente dopo il congresso che  questi tennero a Milano nel marzo 1923. Ma il fascismo procedeva nella sua marcia e al V congresso  dell'lC., perviene l'eco della sfida lanciata proprio  in quei giorni dal nuovo regime alle inerti opposizioni con l'assassinio di Matteotti.
Il V congresso dell'l.C. si tiene a Mosca nel giugno-luglio 1924. Torna ora all'o.d.g. la questione tedesca, sebbene anche in Bulgaria ed in Lituania si  debbano registrare dolorose ritirate proletarie. Nel corso del 1923 si era sviluppata in Germania una situazione rivoluzionaria, favorevolmente aperta all'iniziativa dei comunisti. Ma i comunisti, vincolati agli umori, ai capricci,ai contorcimenti della politica di Mosca, che proprio nell'aprile 1922, in perfetta coincidenza cronologica, con i deliberati dell'Esecutivo Allargato, aveva stipulato il trattato di Rapallo con la Germania, si limitarono a ripetere le parole d'ordine del fronte unico e del " governo operaio e contadino" (cioè di un governo a  compartecipazione fra comunisti, socialdemocratici e "cristiani ").  In Sassonia ed in Turingia si riuscì a costituin uno di questi governi.  A differenza del marzo 1921, quando il partito comunista tedesco si lanciò in una avventura insurrezionale che la situazione condannava al fallimento, nel corso del 1923 il partito comunista resta immobile di fronte alla crisi che ha assalito al cuore la repubblica di Weimar.
Ma non doveva mancare una tragica analogia fra il `21 ed il `23.  Infatti anche l'"azione di ottobre"  precipiat, quando la centrale di Mosca intuisce che in Germania esiste una ottima situazione da utilizzare in senso insurrezionale e diramna per via burocratica il solito contrordine La insurrezione viene così preparata   con  una tecnica cospiratoria,   mentre  le grandi masse organizzate dal partito comunista tedesco non riescono a prendere coscienza del cambiamento che matura. Alla indisposizione psicologica delle masse si aggiunga l'applicazione meccanica ed irresponsabile delle direttive di Mosca, la incertezza della direzione blanderiana che alterna una propaganda legalitaria con una azione illegalista, ed infine la sospensione dell'ordine d'attacco all'ultima ora e si comprenderà perchè ad Amburgo la rivolta inopinatamente scoppiata si concluda con una carneficina, perchè in Sassonia ed in Turingia cadano quasi senza resistenza i governi operai, perchè in Baviera alla svanita minaccia di rivoluzione operaia  sopravvenga  automaticamente la prima ondata dalla controrivoluzione nazista.
In questo sciagurato epilogo l'azione di marzo del 1921 e l'azione di ottobre del 1923, ambedue preparate   od imiprenarate  da  Mosca,  presentano una stretta analogia.
Al V congresso dell'I.C. (giugno-luglIo 1924) si discute appunto dell'azione di ottobre. Il  "responsabile" Blander è liquidato e la direzione del partito passa in mano del destro Thaelmann.
Siamo in fase dl epurazione, condotta senza scrupoli e spesso senza  alcun  criterio, da  parte di uomini candidati anch'essi ad un genere ben più spicciativo di liquidazione: Zinovieff  e Buharin. Nel partito comunista russo Radek, l'ispettore della III Internazionale, è già in stato d'accusa. Trotsky è sospettato e diffidato per le sue aperte critiche mosse a tutta la linea politica dell'I. C.  Ha inizio quello che si chiama il processo di " bolscevizzazione " del vari partiti comunisti nazionali.
In effetti si verifica un processo di " russificazione " di questi partiti non solo nel senso che ad essi viene imposta l'egemonia del partito comunista russo,  ma nel senso, ancor più negativo e pericoloso, che  in essi si riflettono e si ripercuotono i contrasti  che, dopo la morte dl Lenin, hanno cominciato a  dilaniare il partito comunista russo. E la I. C. come il partito bolscevico o l'esercito rosso o i sindacati o la burocrazia, rappresenta nelle mani dei contendenti più rappresentativi una spada da gettare sulla bilancia, a proprio vantaggio.  Di qui la necessità di ridurre i vari partiti comunisti nazionali a corpi malleabili, incapaci di ogni reazione. privi di ogni autonomia.
Scompaiono, una ad una, dalla scena le figure della vecchia guardia che avevano contribuito alla creazione dei  partiti comunisti, in Germania,  in  Francia, in Italia.
Al V congresso è la volta del partito comunista italiano. La direzione bordighista è incriminata d'opportunismo per le sue riserve sulla tattica de fronte unico. Buharin e Zinovieff con l'ausilio dei fidi Thaelmann e Kolarov accusano violentemente i rappresentanti italiani non consenzienti e manovrano contro di loro il "centro" di Togliatti. La manovra si  vilupperà negli anni successivi e condurrà nel congresso di Lione nel 1926 alla vittoria del "centro" ed alla espulsione della "sinistra"  (mentre la espulsione della "destra" si effettuerà  poco prima del congresso di Colonia del 1931).
Un fenomeno non dissimile si registra in Francia con la espulsione di Monatte e di Rosmer avvenuta nel 1924: così in tutti gli altri partiti europei e perfino nel partito comunista cinese, depurato dal chen-tu-shuismo (di destra) e dal li-li-saismo  (di sinistra). I motivi possono essere talvolta puramente  occasionali o marginali, ma la ragione permanente che ispira tutta questa azione epurotiva è la volontà, esplicata con grande abbondanza dl mezzi e con l'abuso quasi ostentato e compiaciuto della calunnia, di asservire i partiti comunisti in ogni paese allegida di Mosca.
In quale misura gli interessi dell'URSS prevalgano ormai sugli interessi del proletariato mondiale: stanno a dimostrarlo, alla fine del "secondo periodo", gli avvenimenti  di Inghilterra e di Cina.
Nel quadro della tattica del fronte unico, che continua in Italia con i "comitati antifascisti", in Germania con la campagna contro l'indennità ai principi, in Francia con il "blocco repubblicano",  pagano il loro scotto anche i proletariati d' lnghiterra e di Cina.
Il 1926 è l'anno del grande sciopero minerario in Inghilterra, cioè in un paese di avanzata organizzazione capitalistica ed in un settore chiave dell'economia mondiale. Contro le masse lavoratrici inglesi si coalizzano il governo di Baldwin e le gerarchie sindacali delle Trade-Unions. I lavoratori confidano di trovare un aiuto nell'I. C., una guida nel partito  comunista inglese. Ma  come risponde la III Internazionale? Come risponde il partito comunista inglese?
Il partito comunista inglese risponde come l' I.C. e l' I. C. risponde  come il  partito comunista russo. Questo partito aveva ispirato la istituzione di un comitato sindacale anglo-russo nel quale i delegati russi si erano impegnati a non interferire negli affari interni dei sindacati inglesi. La costituzione di questo   organismo era stata dettata dalla necessità impellente per la diplomazia sovietica di rompere l'isolamento e cercare alleati nei paesi capitalisti, sia pure a costo di rinunciare alla difesa materiale  e morale dei proletari combattenti all'Interno di questi paesi. Ed infatti  quando nel 1926 i minatori inglesi scendono in sciopero, il comitato anglorusso che tiene quell'anno due conferenze, una a Parigi nel luglio ed una a Berlino nell'aprile, abbandona gli scioperanti al loro destino, in omaggio alla "ragion di stato" che ormai Trade-Unions inglesi e sindacati sovietici fedelmente rappresentavano.
La questione cinese si presenta ancora più grave complessa. Abbiamo già visto come si sia sviluppata la situazione interna in Cina nel corso del "dopoguerra rosso".
Qui la diplomazia russa sposta il suo interesse dal giovane partito comunista nazionale /Kuomintang), esige che il primo si dissolva nel secondo e legando mani e piedi delle masse operaie e contadine cinesi, ottiene di poter inviare in Cina esperti militari, istruttori, agenti d'informazione, tutti manovrati dal noto avventuriero Borodin.
Fino ai primi mesi del 1927 il proletariato cinese, immobilizzato nel "blocco delle quattro classi"  (borghesia. contadini, piccola borghesia urbana, proletariato) si dissangua sotto il comando del "democratico"  Ciang-Kai-Chek per l'unificazione, l'indipendenza e la libertà del paese.
L'U.R.S.S. trae da questa politica anti-operaia grossi vantaggi per la sua penetrazione in Estremo Oriente, conteso dal prossimo Giappone e dalle remote Potenze Inglese ed americana.
Ma nel febbraio-aprile 1927 Ciang, con una conversione a destra che si risolve in un aperto voltafaccia anti-sovietico, scioglie le organizzazioni operaie, fa fucilare gli esponenti delle sinistre del Kuomintang ed instaura un regime di terrore contro i lavoratori di Shangai.
Il periodo della tregua è terminato. L' I.C. tenta con un gesto disperato di ristrappare l'iniziativa ma i lavoratori di Canton, lanciati all'attacco in un putch insurrezionale, vengono sanguinosamente dispersi dal terrore militare nazionalista (dicembre 1927).
Nel momento stesso in cui è stroncata la rivolta di Canton si riunisce a Mosca il XV congresso del partito bolscevico: il congresso che implicitamente con la vittoria dl Stalin sulle opposizioni. anticipa la fine del "secondo periodo" e preannuncia l'inizio del ben più triste "terzo periodo".
 
IL TERZO PERIODO - Abbiamo fissato come prologo del "terzo periodo" non un congresso dell'I. C. ma un congresso del partito comunista russo.
Infatti è il XV congresso del partito bolscevico che segna la fine del periodo della NEP, il passaggio al capitalismo di Stato, l'avvento della burocrazia al potere, l'inizio della liquidazione materiale di ogni opposizione politica all'interno.
Questi atti e queste misure trovano la loro espressione in un "nuovo corso"dell'I.C. deliberato al VI congresso  dell'agosto-settembre 1928. In questo  congresso viene formulato un  "programma"dell'I. C., notevole intruglio di empiria tattica e di opportunismo teorico.
Ormai la originaria potenza critica del bolscevismo  si è esaurita e si cerca di ovviare alla assenza di pensiero, con una stereotipata tecnica verbale.
Così al VI congresso  si scopre  una "svolta" nella evoluzione del capitalismo, si dichiara chiuso il periodo della "stabilizzazione", si inaugura un nuovo periodo storico contrassegnato nell'URSS dalla costruzione del "socialismo in un solo paese" e nel mondo, dalla alleanza della socialdemocrazia con il fascismo. In sostanza si cerca dl gabellare come una sterzata a sinistra sia la politica interna, sia la politica internazionale del partito bolscevico.
Niente di più inesatto.  Il "terzo periodo" rappresenta sia per lo Stato russo sia per l'I. C. un nuovo spostamento verso destra.Come sul piano interno si pone il problema dell'integrazione della terra nell'economia pianificata e si maschera la marcia del monopolio statale sulla piccola proprietà agraria dietro la mitologia dell'edificazione socialista, così sul piano esterno la massima centralizzazione dei partiti comunisti attorno a Mosca e la loro mobilitazione a difesa dello stato sovietico si realizza grazie alle riesumate parole d'ordine sulla offensiva rivoluzionaria "classe contro classe", sul partito come aristocrazia operaia e sulla socialdemocrazia come socialfascismo.
D'altronde queste brusche svolte hanno soprattutto lo scopo di sbalzare dal carro dell'I.C. coloro che incautamente si sono posti troppo in fuori sulle sponde di destra o di  sinistra: scopo  dovunque raggiunto riducendo al silenzio le  opposizioni  e trasformando i partiti comunisti in ciechi automi, disposti a qualunque conversione, inversione o diversione, deliberata dall'alto.
Da un simile stato di cose non potevano che discendere nuove catastrofi per il proletariato europeo e mondiale le cui organizzazioni erano inestricabilmente annodate attorno all'asse di una politica contraria ai suoi reali interessi. Il centro è ancora in Germania: unico paese in cui, dopo i contraccolpi della guerra, la situazione non si sia ancora stabilizzata. Qui il partito comunista raccoglie ancora al suo seguito grandi masse operaie, ma il burocraticismo, il tatticismo, il dilettantismo pseudo-rivoluzionario ne hanno fortemente compromesso le possibilità di ricupero. E quando si apre la crisi che porterà Hitler al potere, il partito comunista, in omaggio alla tattica del "terzo periodo", prima con la partecipazione al plebiscito contro il governo socialdemocratico di Prussia Braun-Severlng (agosto 1931), quindi con la candidatura Thealmann alla Presidenza del Reich (marzo  1932) spianerà  obiettivamente la strada all'avanzata "democratica" delle camicie brune.
il fascismo si afferma: e l'anno successivo (1934) la reazione riporta altri due grandi successi in Austria, con la repressa insurrezione di Vienna ed in Spagna con la domata rivolta delle Asturie.
Di fronte all'aggravarsi della situazione internazionale matura intanto un fatto di enorme importanza storica: l'unione Sovietica che negli anni del dopoguerra, in piena tempesta rivoluzionaria, aveva infranto ogni rapporto con le grandi potenze mondiali, che nel periodo della NEP aveva instaurato prudenti relazioni diplomatiche con alcune potenze, che nel  periodo  del primo piano quinquennale aveva allargato e consolidato queste relazioni, specie con gli stati finitimi, sta per entrare, da perfetto stato capitalista, nell'orbita dell'imperialismo.
L'U.R.S.S. riprende una sua Weltpolitik, ripercorre il cammino storico della vecchia diplomazia czarista,  preme di nuovo lungo le tradizionali direttrici della sua espansione.
Il suo ingresso nel concerto delle potenze si effettua tramite quella "Societa delle Nazioni" già bollata a fuoco nei primi appelli dell'I.C.
La grande maggioranza dei soci (39 voti favorevoli contro 3 contrari e 7 astensioni) accoglierà compiaciuta il nuovo stato-membro. Ed il presidente Sandler, nella storica   seduta del  consesso ginevrino, dirà: "A nome dell'Assemblea ho l'onore di salutare la delegazione dell'U.R.S.S. che da oggi occuperà il suo posto nel seno della nostra istituzione... L'Unione Sovietica fa ormai parte della grande famiglia degli Stati che collaborano   al mantenimento della  pace nell'interesse dell'umanità intera. Ut bonum, felix, faustum sit..." .
I trattati poco dopo conclusi con la Francia di Laval e con la Polonia di Pilsudski mostrano a sufficienza quali  "larghe vedute" ispiravano Ia nuova politica sovietica.
La III Internazionale non poteva, ancora una volta,  che adeguarsi. E le parole pronunciate da Dimitroff, in difesa della democrazia, al processo di Berlino contro Van der Lubbe, ritenuto responsabile dell'incendio del Reichstag, segnalavano il prossimo "tournant", di cui lo stesso Dimitroff sarà l'ispiratore e la guida.
Si tratta ora di rivedere la tattica non gia sulla base della sconfitta subita dal proletariato tedesco, ma sulla base delle affermazioni ottenute dai nazlonal-socialisti in Germania. E poichè i nazionalsocialisti hanno conquistato il potere facendo leva sui sentimenti nazionalisti delle masse, non resta che prenderne atto ed adottare la stessa tecnica, sia pure in senso antifascista.
Sta per nascere il nazional-comunismo. Al settimo ed ultimo congresso del luglio-agosto 1935 la I. C. entra perciò in movimento, verso destra, sempre verso destra con la tattica dei "fronti popolari" e dei generali quanto generici schieramenti antifascisti: dalla Cina, dove il proletariato viene riaffiancato a Ciang-Kai-Chek contro giapponesi, alla Francia  ed  alla Spagna   dove l'intesa con la borghesia democratica-repubblicana apre per la prima volta le porte dello stato  ai comunisti, in cambio di loro congrue rinuncie ad  impegni di classe.
L'Europa è già lanciata verso la seconda guerra imperialista e l'I. C. si appresta a giuocarvi un ruolo di primo piano, quale non era stato certamente previsto dagli estensori del suo primo proclama, quando avevano scritto:"Gli opportunisti, che prima della guerra mondiale esortavano gli operai alla moderazione in nome del graduale passaggio  al soclalismo, e  che  durante la guerra predicarono la sottomissione in nome della pace interna e della difesa della patria, ora chiedono dal proletariato abnegazione per superare  le terribili conseguenze della   guerra. Se queste pretese venissero accolte dalle masse operaie, lo sviluppo capitalistico festeggerebbe sulle ossa di parecchie generazioni, in una forma ancora  più concentrata e mostruosa, la sua restaurazione con la prospettivadi un'altra inevitabile guerra mondiale".
La III Internazionale aveva raggiunto lo scopo scongiurato dal suoi fondatori.

    CONCLUSIONE - Non esiste nella storia dell' I.C. un moto pendolare fra sinistra e destra,     fra destra e sinistra: si sviluppa bensi un costante ripiegamento controrivoluzionario  dell'I. C.  su due binari paralleli.Da una parte l'organizzazione è ingaggiata in forma sempre più impegnativa sul piano della politica estera dell'U,R.S.S.: politica estera che traduce in spinta imperialistica esterna il processo di restaurazione capitalistica in atto all'interno dello stato sovietico.Dall'altra parte l'organizzazione è compressa plasmata da un centralismo oligarchico che misconosce la critica e l'autocritica ed  esige il più piatto conformismo dei partiti subalterni verso il partito egemone: tanto che, se nel primo periodo l' I.C. ed i suoi esecutivi allargati sono sede di aperti e fecondi dibattiti, nel secondo periodo le discussioni,  ammesse  o tollerate, perdono  vigore. cadono nell'artificio, restano sincopate dallo spirito gregario, e nel terzo periodo vengono del tutto abolite.
L'ultimo congresso dell'I.C. si risolve in una coreografica manifestazione di lealtà e di plauso alla linea politica prestabilita ed ai suoi massimi ispiratori.
E  come se ciò non bastasse a completare il quadro delle rovine proletarie, la I.C. non è neppure in grado di provocare una salutare e consistente reazione di minoranze contro i suoi errori e contro le sue colpe. Quando i dissidenti non vengono risospinti in braccio al fascismo, come Tasca o Doriot, o in braccio alla socialdemocrazia come Levi o Silone, un vizio ormai contratto ed inespungibile di settarismo, condanna all'impotenza tutti i gruppi di opposizione e ne polverizza le già  frazionate e disperse compagini.

8) Fascismo ed antifascismo: doppia faccia di una crisi.

E' in atto nella società contemporanea, come siamo venuti anzi esponendo, una crisi della società  capitalistica nel suo insieme, una crisi di cui la classe capitalistica tenta di rinviare ad ogni svolta storica lo sbocco ineluttabile, aggravandone i termini ed inasprendone le manifestazioni.
In questo senso il fascismo è un prodotto di questa crisi, anche se sembra rappresentarne una esasperata evasione .Ma non di questo volevamo parlare, quando abbiamo detto che il fascismo e l'antifascismo sono due facce delle stessa crisi. Non alla crisi della società capitalistica nel suo insieme volevamo alludere, ma piuttosto alla crisi che, grosso modo, negli ultimi trent'anni ha colpito ed interrotto il moto d'ascesa della classe lavoratrice.
Non si tratta dunque di condurre qui un'inchiesta sul fenomeno fascista in se, sulla sua natura, ma piuttosto  si tratta di studiare criticamente quella sconfitta della classe operaia che si chiama "fascismo", si tratta in ogni caso di studiare il fascismo in rapporto alla sconfitta della classe operaia. E poichè questa sconfitta si estende, si aggrava, si prolunga fuori del fascismo e dopo il fascismo, all'interno  dell'opposizione  antifascista, si  tratta ancora di estendere e di prolungare il nostro studio a questo secondo fenomeno,strettamente connesso al primo, per ritrovare nel binomio fascismo-antifascismo le cause di questa trentennale dèbacle del proletariato europeo.
Occorre, in breve, domandarsi perchè e come il fascismo, sorto come brutale reazione dei  gruppi egemoni borghesi, sia riuscito sul suo cammino a  travolgere ogni resistenza popolare e sia altresì riuscito ad impiantare una stabile dittatura di classe: occorre, ancora, domandarsi perchè  e come l'antifascismo  sorto come  opposizione al  fascismo  e quindi come forza antagonista di classe, abbia fin dall'inizio perduto questo carattere e si sia ridotto a tradire, in ultima istanza, le ragioni per le quali  era nato.
Sede ideale per uno studio del genere è l'Italia, non solo perchè si tratta del campo più facilmente accessibile per una simile ricerca, ma anche perchè essa si presenta come il campo sperimentale di tutto il fascismo europeo (al quale dedicheremo una parte speciale di questo paragrafo).

FASCISMO E ANTIFASCISMO IN ITALIA.

Alla tesi, da noi   perfettamente condivisa, secondo cui il fascismo fu un fenomeno di classe.  cioè una organizzata impresa del capitalismo nazionale per difendere  all'interno e per     espandere all'esterno   la sua potenza  di classe,  tramite un apparato statale  totalitario, la critica liberale col suo banale (ma alla fine non troppo ingenuo) semplicismo, suole rispondere che questa tesi è gravemente compromessa da tre  elementi  probanti in senso contrario:
1) le origini "di sinistra" del movimento fascista, documentate dalla specifica provenienza politica di gran parte del suo stato maggiore:
2) il vasto reclutamento operato dal fascismo tra le masse rurali della campagna:
3)  l'abusata  demagogia "proletaria" della propaganda fascista, che ebbe vieppiù eco e fortuna in certi settori popolari dell'opinione pubblica italiana, fin dalle origini.
Potremo addirittura da questo scorcio polemico, cioè in sede di replica all'obbiezione della   critica liberale, aprire la nostra rassegna. Il lettore accorto non faticherà ad individuare nei citati argomenti di polemica i tre fondamentali problemi del divenire rivoluzionario "minoranza  agente,   masse  in movimento,  congiuntura di crisi) che sono oggetto della nostra  attenzione fin  dall'inizio di questo saggio.
Ma la critica liberale peccava nel costituire quei suoi argomenti in presunti legami di parentela tra il fascismo ed il movimento della classe lavoratrice: legami assurdi e storicamente inconcepibili fra le due classi antagoniste.
La questione  va  impostata diversamente; non si  tratta di scoprire dei raccordi fra il movimento della classe lavoratrice e la reazione borghese contro questo movimento, diagnosticando il  fascismo come "malattia"  di una non meglio definita "società italiana": si tratta invece di sapere in quale misura la nascita del fascismo è stata favorita da deficienze e debolezze della classe lavoratrice italiana.
E da questo punto di vista si può spiegare l'incontestabile  passaggio dall'estrema sinistra   all'estrema destra di una grossa falange di quadri socialisti e sindacalisti, con gli altrettanti incontestabili difetti che avevano contraddistinto la formazione delle compagini socialista  e  sindacalista (e con la ben scarsa importanza attribuita in seno ai movimenti socialista e sindacalista al problema della minoranza-agente e della sua educazione rivoluzionaria).
Come si erano infatti formati questi quadri? Si erano formati in modo molto confuso e caotico, attraverso una selezione irregolare di un materiale scadente, fornito da una massa di spostati della piccola e media borghesia, affluiti disordinatamente al movimento della classe lavoratrice ed insediatisi in esso: nelle redazioni dei giornali, nelle cooperative, nei sindacati,  nelle   organizzazioni centrali   e periferiche di partito etc.
Si trattava di "idealisti" senza alcuna vertebra morale, o di "professori" di una ignoranza politica ragguardevole, di "organizzatori" idonei tutt’al più a tessere clientele od a montare una campagna elettorale, di "agitatori" buoni solo per uno scandalo o per un "affare".
E quando questo periodo storico che aveva visto le masse entrare attivamente nella vita politica ed occuparvi un posto dl primo piano è spezzato repentinamente dal ciclone della guerra e mentre le forze a lungo incubate dal capitalismo, riprendono il sopravvento sul piano storico schiacciandone sotto e cacciandone fuori le masse attonite ed impreparate, l'avventura socialista è già finita per i  rivoluzionari  dilettanti che rientrano con disciplina nei ranghi della loro classe.
D'altronde il partito socialista,  si era posto il problema della rieducazione dl questi elementi, che spesso per la responsabilità delle loro funzioni, rappresentavano l'ossatura del partito? Nient'affatto. Il partito socialista non solo non aveva rieducato gli elementi privi di qualsiasi coscienza di classe ma aveva diseducato. in un ambiente saturo di opportunismo, anche i militanti operai dotati di un potenziale  istinto di classe. E la stessa reazione sindacalista, se nelle masse rappresentò un positivo  indice di vigore e di ripresa. nei suoi quadri, ripetè, con meno ordine e con maggior retorica, i difetti intrinseci al partito.
Per questa ragione si registra l' impressionante fenomeno dell'esodo in ondate successive     (nazionalismo,  libicismo, interventismo,  fascismo,  di elementi che si ritrovavano tutti in fila di fronte agli uffici di reclutamento   delle "squadre", a cominciare dalla sala di Piazza San Sepolcro (gentilmente concessa dagli Industriali e Commercianti di Milano) in poi.
Ecco il gruppo degli ex-sindacalisti teorici Orano, Dinale, Panunzio, Maraviglia, Forges-Davanzati, Lanzillo ed infine Leone.
Ecco il gruppo degli ex-sindacalisti "pratici": Bianchi, Rossoni, Razza, Malusardi. Zocchi. Ciardi, Pasella,  Maia,  Ruggeri, De Ambris, Meledandri, Rossi etc.
Ecco il gruppo degli ex-anarchici più o meno meteorici:Gioda. Rocca,Gigli, Rygier, Mazzuccato, Arpinati.
Ecco il gruppo degli ex-socialisti, Mussolini in testa: Marinelli e Galassi, Podrecca e  Terzaghi, Dini e Capodivacca.
Fra queste schiere il fascismo recluta oltre ai suoi sicari i suoi quadrunviri. i suoi ministri, i suoi funzionari corporativi e li affianca ai rappresentanti dell'industria, dell'agraria, del   patriziato, della banca,  dell'esercito etc.
La  cooptazione di   nuove   elites  da parte della classe egemone è cosi compiuta.
Passiamo   alla seconda   questione: la reale influenza esercitata dal fascismo fra le masse delle campagne e delle città, più fra le prime che fra le seconde.
Anche questo fenomeno, che noi vogliamo  vedere  da un punto di vista soggettivo,  va fatto   risalire ad una organica debolezza del partito socialista che non si era mai posto, in sede politica, il problema dell'alleanza fra operai e contadini, e che quindi non si era neppure posto, in sede organizzativa, il problema della sua penetrazione fra le masse rurali delle campagne.
A che cosa si riduceva l'interesse del partito socialista verso le masse contadine? Si riduceva ad una propaganda semi-evangelica, al commercialismo delle cooperative ed alle periodiche ventate di demagogia elettorale. Ed a nient'altro. Se si accettua la Bassa emiliana, il Polesine, il Lodigiano, la provincia di Mantova, larghe fascie dell' Italia settentrionale erano ancora vergini alla propaganda socialista. Nell'Italia centrale le  campagne della Toscana,   dell'Umbria e  delle Marche - le vere campagne del villaggi e dei borghi, non i minori centri urbani - cominciarono a sentire solo dopo la guerra un certo risveglio sociale a fondo populista.
E nel mezzogiorno che pure aveva dato un cosi forte contributo intellettuale allo sviluppo del socialismo, il partito socialista ed i sindacati non erano riusciti in trent'anni a metter salde e diffuse le radici fra le masse contadine.
Per questa carenza d'ordine politico ed organizzativo il fascismo può assumere in certe campagne una fisionomia plebea, popolaresca, ruraleggiante, puà arruolare centinaia di crumiri e di manganellatori che vengono trasportati nelle città a battersi contro gli operai. Eppure laddove esiste una salda tradizione di lotta, le squadre fasciste mobilitate per le spedizioni punitive cozzano contro una strenua resistenza: a Foiano delle Chiana ed a Roccastrada  a Sarzana ed a Minervino Murge,  a Casale Monferrato ed infine a Molinella.
Non dimentichiamo tuttavia che una situazione estremamente favorevole al fascismo fu l'assenza, per i suoi capi, di ogni preoccupazione meridionale. I fascisti mossero all'assalto del  potere quando furono sicuri che il mezzogiorno, in parte terrorizzato dalle squadre di Caradonna e di Padovani, in parte succube degli ambigui atteggiamenti di Nitti o di Orlando, sarebbe rimasto immobile di fronte al colpo di stato. Ed anche ciò  potè avvenire grazie    alla mancanza di un preventivo lavoro di organizzazione e d'orientamento da parte del partito soclalista   fra le masse del  mezzogiorno,  che  pure erano  mature per  liberarsi del vecchio  apparato politico ed economico.
Altro  settore non  sufficientemente curato fu quello dei reduci e degli ex-combattenti: l' unica grande massa, posta in movimento da determinante circostanze obiettive.
Il  partito socialista, non gia malgrado  ma in conseguenza della sua, pur debole,  opposizione alla guerra, era in condizione di dare una impostazione rivoluzionaria al problema dei reduci, degli ex-prigionieri,   degli   ex-combattenti.
Bisognava studiare la particolare psicologia del reduce, evocare le sue sofferenze patite e le tradite promesse.rompere ogni "spirito di corpo" fra soldati da una parte ed ufficiali dall'altra, isolare a sua volta gli ufficiali responsabili dalla massa dei graduati inferiori, costituire particolare formazioni di reduci che avessero la funzione  di associare   politicamente queste forze e di rieducarle alla solidarietà di classe.
Che cosa si fece al contrario? Si fece della generica propaganda contro "coloro che  avevano fatto la guerra", ci si abbandonò a delle irritanti recriminazioni,  si ributtarono sulla strada di Fiume o di Roma degli uomini che potevano invece porsi contro il governo costituito per esigere il mantenimento delle promesse fatte nel corso della guerra:terra, lavoro, pace.
Ma a questo punto sorge la questione più vasta della generale situazione in Italia all'indomani della guerra: quella situazione sulla quale il fascismo speculò con la sua demagogia pseudo-proletaria e pseudo-rivoluzionaria. Il fascismo fece infatti della demagogia, molta demagogia: ma non la fece verso la classe operaia, bensi contro la classe operaia. La demagogia fascista non era solo verbosità o truculenza o rettorica da  barricate:  essa era   soprattutto inganno sistematico e consapevole.
Tuttavia questo inganno riuscì a far presa, solo profittando dell'assoluta mancanza di un  movimento di classe, organizzato ed orientato in Italia. La situazione è rivoluzionaria, le masse si radicalizzano verso un estremismo risolutore, lo stato si disintegra: e ciò malgrado le classi dirigenti, che poi in Italia non erano un portento di intelligenza politica, dopo un attimo di sbigottimento, passano al contrattacco   ed ottengono   una  schiacciante rivincita.
E, badiamo bene, che la propaganda del fascismo, nel suoi motivi pseudorivoluzionari, era tanto ridicola e grottesca, da superare di poco la pur sincera, ma sterile propaganda   socialista.
Il fascismo adeguando la sua propaganda alla situazione confermava il carattere rivoluzionario dl questa situazione, sia pure a fine di speculazione: il partito socialista non aveva esattamente capito neppure questo ed usciva con motivi contraddittori, ora  di    massimo illegalismo, ora di legalitarismo estremo, senza un programma concreto di rivendicazioni  politiche ed economiche, degne  di vasti consensi, e soprattutto senza una strategia e senza una tattica rivoluzionaria.  E' ancora da  valutare  l'importanza  avuta nel successo della reazione, l'attacco da questa sferrato sul terreno militare contro il vecchio apparato dello stato. Ma oggi a distanza di trent' anni non si può che sorridere della debolezza "borbonica" dello stato italiano come non si può che sorridere dell'intima incosistenza    del  movimento fascista:  masnada  di  squllibrati  che  tiravano avanti soltanto con la benzina e con gli cheques, passati loro dall'industria e dall'agraria.
A prescindere dai 18 BL, residuati di guerra, e da qualche mitragliatrice  rubata  nel  depositi,   la marcia su Roma, con tutta la sua coreografia di bastoni e di divise strane e di cartoni con scritte più o meno terrificanti, si ridusse ad una rivolta dl stile sudamericano. a lieto fine per i suoi protagonisti.
Ebbene di fronte ad uno stato in decomposizione, il partito socialista non trovò le parole d'ordine per vincere la sua battaglia, e lasciò che un partito, senza tradizione alcuna e senza alcun diritto di  cittadinanza neppure in una società democratica. portasse a termine, talvolta col consenso di masse ormai stanche e desiderose di "ordine nuovo", la sua avventura insurrezionale.
E dopo la sconfitta non gli restava che ripiegare sul terreno dell'antifascismo. Ma l'antifascismo. già dopo la marcia su Roma. non è più  un fenomeno di classe, non è più un fatto omogeneo, ma un riflusso quanto mai eteroclito di reazioni e di opposizioni al fascismo.
Vi è l'opposizione liberale, quella repubblicana, quella cattolica, quella socialista, quella comunista: e ogni opposizione a sua volta presenta molteplici striature, i paleoliberali ed i neoliberali, i repubblicani "vecchi" ed i repubblicani "giovani", i cattolici intransigenti e i cattolici accomodanti, i socialisti di sinistra ed i socialisti di destra (almeno fino al  1930: anno della riunificazionei),  i comunisti ortodossi e  le frazioni comuniste dissidenti.
Ed in questo fronte eterogeneo, due settori particolarmente movimentati: quello degli ex-fascisti che per disavventure personali non sempre d'ordine propriamente politico, vengono cacciati all'opposizione (prima i dissidenti del genere Forni, Misuri, Padovani; poi i riconvertiti del genere De Ambris; infine tutti i detriti che perfino lo stomaco fascista rivomitava): e quello degli ex-antifascisti che piegano la testa al regime e talvolta offrono i loro servizi alla dittatura (in tre occasioni storiche: dopo la "marcia"; dopo le leggi eccezionali: al tempo della guerra d'Etiopia con i casi Ansaldo, Labriola, Orlando etc.).
E come se ciò non bastasse, ecco a completare il quadro il folto gruppo di antifascisti generici fra i quali non mancano gli avventurieri, i provocatori e le spie (i casi Garibaldi, Pitigrilli. Giannini, etc.). L'antifascismo fu dunque un immenso campo d'Agramante, nel quale fra l'altro nessuno dei tradizionali partiti politici italiani aveva le carte perfettamente in regola.
I liberali non tanto come partito quanto come vecchia classe politica erano gravati, a prescindere dal Giolitti, morto troppo presto per vedere le nefaste conseguenze della sua politica, dal maggior peso  di responsabilità: essi potevano vantare in Salandra, l'avallatore del fascismo, in Bonomi l'uomo delle reiterate prese di posizioni a favore dello squadrismo prima ,e del regime poi, in Nitti il congiurato e complice della vigilia, in De Nicola il Presidente della Camera filofascista, in Einaudi l'elogiatore del manganello, in Bergamini direttore del Giornale d'Italia, il pubblico favoreggiatore della propaganda fascista, in Casati, Sarrocchi e Corbino i collaboratori di  governo (senza contare tutti i liberali presenti nel famoso "listone" ).
I renubblicani, dopo aver regalato al fascismo il deputato Meschiari, hanno specialmente in Romagna, favorito, auspice il Comandini, l'azione delle squadre, per cieca fobia  anticomunista ed hanno ad esse legato le organizzazioni "gialle" capeggiate da Armando Casalini.
I socialisti a prescindere dai vecchi rinnegati Loria, Bonomi, Podrecca,si trovano compromessi da due distinti gruppi: quello de "La Gironda" facente capo al Ferri, al Bianchi ed all'Alessandri ed auspicante una collaborazione  col fascismo, e  quello dei "confederali" Baldesi, Colombino, Rigola, D'Aragona non alieno da fornicazioni col regime in cambio di    una  equivoca tolleranza (verso il gruppo editoriale "I problemi del lavoro" e del quotidiano "il Lavoro" di Genova).
I cattolici erano gravemente pregiudicati, oltre che dalle espresse manifestazioni di simpatia del  loro leader Paolo Cappa, dalla partecinazione di  Cavazzoni, Tangorra, Milano, Merlin, Gronchi al  primo ministero Mussolini.
I comunisti, liberatisi fin dal 1921 degli elementi più incerti, salvo alcune defezioni individuali come quelle clamorose del Bombacci e del Repossi e l'altra meno drammatica del Graziadei, reggono abbastanza bene l'urto.
Eppure tutti questi gruppi, costituenti l'opposizione antifascista, ebbero nel corso della loro stentata vita all'estero, un solo assurdo proposito: quello dell'unità. Per venti anni l'esilio degli antifascisti fu  avvelenato  da  interminabili   polemiche su questo tema dell'unità. Si puo quasi dire che la storia dell'antifascismo è la storia di una serie di tentativi unitari falliti o seinifalliti.
Concentrazionismo ed anti-concentrazionismo, fronteunicismo ed antifronteunicismo furono i ricorrenti termini della polemica. Nel 1927 fu fondata appunto una "concentrazione    antifascista" cui parteciparono socialisti unitari e socialisti massimalisti, repubblicani, Confederazione generale del Lavoro e Lega dei Diritti dell'Uomo. Nell'autunno del 1931 vi entravano i "giellisti" ma nel marzo 1932 ne uscivano  i repubblicani (per rientrarvi più tardi)  finchè  il 5 maggio 1935 la Concentrazione venne sciolta. Questo episodio si era appena concluso che si convoca nell'ottobre dello stesso anno a Bruxelles il congresso degli Italiani all'Estero contro la Guerra. Ora sono i comunisti a prendere l'iniziativa dell'unità e la terranno a lungo, fino al patto tedesco-sovietico  del  `39. Questo  per  quanto riguarda l'emigrazione nella sola Europa Occidentale che nel Nord-America, Sud-America, nell'Africa del Nord, gli esperimenti si ripetono con non migliore esito.
Si trattava di diluire l'istanza di classe nel fronte unico dell'opposizione dai massoni ai monarchici:si trattava di incorporare questa istanza e di annullarla. E quando nel paese scaturivano opposizioni nuove sotto il segno della resistenza di classe, queste  venivano   automaticamente ipotecate dall'antifascismo   ufficiale e poste  sotto  il suo alto patronato.
Ciò premesso non è difficile fare un bilancio dell'antifascismo: sul piano delle idee, l'antifascismo  rappresentò un fertile vivaio di fermenti culturali nuovi, specie nel suo primo periodo  dal 1922 al 1927 con quella serie di periodici che, da Rivoluzione Liberale all'Ordine Nuovo    (terza serie), da Promoteo a Stato Operaio, da Quarto Stato a Il Caffè, da Il Baretti a Pietre, da Studi Politici a Coscientia, da Critica Politica a Pensiero e Volontà, costituiscono un alto documento di pensiero, in confronto alla miseria ed alla vanità delle pubblicazioni fasciste.
Nel secondo periodo questa tradizione è continuata dal gruppo di "Giustizia e Libertà" a Parigi e da "Studi Sociali" a Montevideo oltre che dalle pubblicazioni assai irregolari delle opposizioni comuniste (per il resto, si registra un isterismo progressivo ed una preoccupante assenza di problemi).
Sul piano dell'azione, l'antifascismo mosse fino alla rivoluzione spagnola su due direttrici obiettivamente complementari, a prescindere dalle polemiche che segnarono questa "divisione di lavoro": l'azione di massa sviluppata organicamente dai comunisti con una lInea non sempre coerente ma con un metodo quanto mai ordinato, l'azione individuale sviluppata dagli anarchici e dal movimento di "Giustizia e Libertà" (i voli di propoganda, gli attentati, l'organizzazione degli espatrii).
Un particolare rilievo merita l'opera degli anarchici (ritorneremo dettagliatamente sull'argomento nelle prossime dispense della PEA).
Gli anarchici, nella loro grande maggioranza, rifiutarono ogni adesione ai blocchi politici nati sotto il segno dell'antifascismo generico e denunciarono pubblicamente (interventi di Fabbri, di Borghi e dello stesso Malatesta) la natura equivoca, aclassista ed anticlassista, di questi blocchi,
Ed  anche se nel movimento anarchico molto tempo e molta carta furono impiegati in polemiche inutili e viziose (e due ne erano le ragioni: una soggettiva, data dalla dispersione "radicale" di quel movimento ed una obiettiva data dal suo forzato distacco dalla realtà  italiana), il fatto stesso che questo movimento nel suo insieme avverti quanto fosse pregna d'opportunismo la formula dell' "alleanza antifascista", prova la sua, .molte volte istintiva, sensibilità.
Sul piano dell'azione poi, gli anarchici, alcuni inibiti da una vera e propria fobia antiorganizzativa, altri ostacolati da enormi difficoltà materiali  (in misura maggiore di ogni altro gruppo politico), seppero compensare la loro deficienza nel campo dei contatti di massa, con   interventi individuali  che costituirono, nei momento in cui  avvennero,  un fatto ed un fattore "di massa".
D'altronde anche per il movimento anarchico come per tutte le minoranze vinte dalla reazione. non si potevano che giustamente ripetere le sincere parole di Carlo Rosselli  in una lettera a Pietro Nenni: "Mica per nulla abbiamo perduto".

FASCISMO ED ANTIFASCISMO IN EUROPA -

Che il fascismo non sia stato un caso italiano ma un avvenimento mondiale, è provato dalla estensione del fenomeno. E che ancora esso non abbia rappresentato una "rougèole du siècle" ma piuttosto una ben determinata forma politica corrispondente ad uno stadio dello sviluppo capitalistico nella fase dell'imperialismo, è ancor meglio dimostrato dalle varie fattispecie in cui esso si manifesta e si atteggia per esprimere una unica esigenza storica: l'esigenza storica di una classe che deve resistere con una totalitaria concentrazione di sforzi, alla corsa per il predominio mondiaIe e deve al tempo stesso fronteggiare i conati di rivolta popolare che quella tensione di sforzi, suscita ed alimenta.
Perciò qui (in Italia) sono prevalentemente, dei gruppi di spostati, di disperati e di fanatici che in qualità di capi e di gregari si mettono al servizio della classe dominante, per un'azione di forza che si conclude nella conquista del potere ed in una sua nuova ripartizione con i vecchi gruppi dirigenti: là invece (in Spagna con Primo De Rivera, in Grecia con Metaxas) sono le caste conservatrici e monarchiche, l'esercito o la burocrazia, che si pongono. in un clima di acceso lealismo, a difesa della Corona, tramite l'istituzione di una provvisoria dittatura: più in là ancora (come in Ungheria  ed in Jugoslavia) sono i reggenti stessi che prendono l'iniziativa per lo stabilimento di un nuovo ordine, e fondo nazionale e pregiudizialmente antisocialista: qua invece (in Austria ed in Portogallo) sono i cattolici che contribuiscono alla fondazione di tipici regimi "austroportoghesi" a fondo nazionale-corporativo che con Dolfuss e con Salazar non hanno niente di invidiare ai regimi di Hitler e di Mussolini; più sopra (in Polonia ed in Lituania) sono gli stessi "eroi" dell'indipendenza come Pilsudski e Voldemaras che instaurano una loro personale dittatura, a fondo paternalistico; ed infine in Germania abbiamo la forma estrema di un partito che, superando gli schemi già noti di nazionalismo, tradizionalismo, realismo, militarismo, sanfedismo. costruisce un tipo dl stato che è, per la sua struttura e per la sua mistica, la reppresentazione più moderna e più spregiudicata dell'imperialismo.
Cosi svanisce la leggenda, tante volte coltivata dalla vanagloria italiana, di una diffusione del fascismo in  Europa e fin nelle lontane Americhe (Brasile. Argentina). Il fascismo in effetti non si diffonde: ma erompe qua e là dal tessuto della stessa società capitalistica, in forme talvolta eterogenee e necessariamente contraddittorie (conflitto polacco-lituano; austro-tedesco; ungaro-ruimeno; Italo- greco, per restare ai casi tipici). E quando, a parte l'episodio spagnolo  che  esamineremo   separatamente, esso è importato, trova immediatamente in   loco una tradizione nazionale da continuare  (in Francia con Laval).
L'antifascismo europeo, a prescindere sempre da quello spagnolo, è un movimento d'uomini e d'idee assai più inflazionato dell'antifascismo italiano. Per due ragioni: perchè prima dell'avvento di Hitler non si verificano nei paesi a regime totalitario o semitotalitario, rilevanti fenomeni di emigrazione politica; perchè, dopo l'avvento di Hitler, l'antifascismo ha già automaticamente cessato di essere un  movimento politico definito per  mutarsi in un accampamento più o meno nomade nel quale si ammassano nazionalisti ed ebrei, esponenti della vecchia democrazia e cortigiani dei re spodestati, profughi e disertori, cattolici e massoni, perfino ex-nazisti ed ex-fascisti pentiti: tutti vittime del diluvio.La differenziazione diventa più difficile per le minoranze rivoluzionarie. E quando scoppia la guerra innalzata nell'Occidente l'insegna della democrazia  antifascsta, alle  minoranze  rivoluzionarie non   resta che  portarsi ben fuori dalla trappola fascismo-antifascismo che ormai si chiude sul proletariato mondiale, con le morse della guerra.

9) Rivoluzione e controrivoluzione in Spagna.

Il movimento operaio spagnuolo fin dalle sue origini ebbe uno svolgimento singolare ed autonomo in rapporto al movimento del proletariato europeo, data anche la natura talvolta più insulare che peninsulare della vita economica, politica e civile della Spagna. specialmente nei secoli della decadenza.
Questo stato di cose produsse come sua logica conseguenza una certa asincronia dei movimenti rivoluzionari in Spagna in relazione al moto generale delle crisi e delle rivoluzioni europee. Ciò che si era verificato in molte precedenti occasioni, si registro infatti ancora una volta con la caduta della monarchia spagnuola:evento di grande rilievo nella vita nazionale della Spagna che vedeva scomparire una secolare dinastia  e venir meno una tradizionale forza della conservazione interna, evento che tuttavia si effettuò in una provinciale cornice   amministrativa,  senza inquadrarsi in avvenimenti di più vasta portata continentale.
E' in seguito ad una serie di pronunciamenti militari, al vivo fermento delle correnti politiche liberali, repubblicane,  radicali e socialiste (Patto di San Sebastiano) ed al responso delle elezioni municipali del 12 aprile 1931 che il re Alfonso XIII abbandona la Spagna, fattasi Repubblica.
La monarchia si era rivelata elemento troppo tardo, se non addirittura immobile e statico, per secondare le giovani forze della borghesia democratica, e sotto la pressione di queste forze non poteva che spezzarsi. Ma in effetti la situazione in Spagna non cambia dal punto di vista dei rapporti di classe, se non nel senso che questi rapporti si sono liberati di un ingombrante involucro ed hanno rafforzato la  loro tensione antagonistica. Ciò risulta chiarissimo in   occasione dei primi entusiasmi popolari intesi a sottolineare la epurazione dell'esercito, la laicizzazione della vita nazionale, la repressione del putsch antirepubblicano capitanato dal generale Sanjurjo. Infatti quando questi entusiasmi si allargano e si concretano in movimenti    di masse per l'acceleramento e la  esecuzione della promessa riforma agraria, il governo della sinistra, tenuto da Azana, si toglie la maschera e declina le sue esatte generalità di nemico della classe lavoratrice con i massacri del gennaio 1933 (Casas Viejas, ecc.).
Le masse comprendono subito che il regime di predominio capitalista, il regime dello  sfruttamento e della violenza, non ha cessato di esistere con l'avvento della Repubblica, ma ha creato più adatte condizioni al suo sviluppo. Ma le masse avvertono tuttavia che anche per esse sono sorte nuove condizioni di lotta e di successo.
E' in seguito a  questa nuova  coscienza  della situazione da parte della classe lavoratrice che il governo della Sinistra (nel quale Azana ha ceduto la Presidenza a M. Barrios) cade, privato dall'appoggio popolare e premuto dalle destre, passate ad un tentativo di controrivoluzione  preventiva.
Abbiamo cosi dopo le elezioni del novembre 1933 il cosidetto "bienio negro" un periodo nel corso del quale le Destre con Samper o Lerroux o Gil Robles  o Portela Valladares  tentano  una   vasta azione di  arginamento reazionario e di restaurazione. Ma devono fronteggiare continui   attacchi dell'opposizione, nel cui  schieramento  la  classe operaia tiene posizioni d'avanguardia: subito nel dicembre 1933 abbiamo, per iniziativa della C.N.T.un vasto movimento in Catalogna ed in Aragona. Si deve frustrare il successo elettorale delle destre: si deve passare all'occupazione delle  fabbriche delle terre: si deve iniziare e  portare a  fondo una   insurrezione generale  in tutta la Spagna.
Ma se lo sciopero è generale in tutto il paese,esso non riesce a tradursi in insurrezione. Solo in alcune provincie dell'Aragona, isolati, i nuclei di rivoltosi, resistono per alcuni giorni contro le truppe inviate dal governo centrale.
Nella primavera del 1934 l'Aragona torna all'ordine del giorno con un grande sciopero generale della durata di cinque settimane. E nell'ottobre abbiamo prima l'abortito  movimento social-federalista in Catalogna e quindi la drammatica sanguinosa rivolta delle Asturie. domata con il selvaggio intervento della Legione Straniera e punita con una feroce rappresaglia giudiziaria.
Ma dall'azione delle Asturie sorgono le premesse della rivincita: là, infatti, nel corso della lotta si è realizzata  l'unità d'azione delle due massime organizzazioni sindacali. I partiti politici ne prenderanno l'esempio e nel gennaio 1936 passeranno alla costituzione del Fronte Popolare comprendente radicali dissidenti di Martinez Barrios, repubblicani di sinistra di Azana, partito socialista, partito comunista, sindacalisti di  Pestana, "poumisti",autonomisti catalani e baschi.
Fra questi gruppi politici alcuni sono quelli stessi che trescando con i reazionari dietro il paravento della difesa della Repubblica avevano spianato la strada a Lerroux, altri rappresentano formazioni locali, ed uno, pur debole, il partito comunista, costituisce l'elemento nuovo ed insidioso di simili combinazioni. Tuttavia, grazie anche all'appoggio della C.N.T. che rinuncia per l'occasione alle sue progiudiziali astensioniste, con le elezioni del febbraio 1936. le destre sono rovesciate e il Fronte Popolare prende, con una forte maggioranza, il potere. Ma. ad eccezione del passaggio della Presidenza della Repubblica da Zamora ad Azana, all'amnistia, ad un nuovo progetto di riforma agraria ed alla istituzione di un nuovo corpo di polizia, la situazione non   viene sostanzialmente modificata nè tanto  meno capovolta, dalle elezioni.
Unico effetto positivo: la fine del  regime  reazionario rimette in movimento le masse oltre i limiti stessi segnati nei piani del Fronte Popolare.
Lo Stato sembra ora neutralizzato: la via è libera all'azione extrastatale. Da una parte le organizzazio!ni operaie e dall'altra i molteplici raggruppamenti fascisti spalleggiati dall'esercito, dalla chiesa, dalla nobiltà  terriera, dai  circoli monarchici, si fronteggiano.
Passiamo in rassegna queste forze. La C.N.T. (anarco-sindacalista, e la più forte organizzazione operaia. Fondata nel 1911 deriva le sue origini dalla "Federazione" snagnuola  aderente alla Prima Internazionale e dal movimento anarchico operante fino allora o con isolati nuclei d'azione o con il movimento culturale ispirato dalla "Scuola Moderna". Dopo la prima guerra mondiale la C.N.T. compie un gran passo in avanti e registra al suo secondo congresso nel 1919 settecentoquattordicimila lavoratori   rappresentati. Il  governo De Rivera lancia provocazioni e provvedimenti liberticidi contro la C.N.T., ma De Rivera finisce per cadere ed al congresso do riorganizzazione del 1931 la C.N.T. conta ancora seicentomila aderenti.
Durante gli anni della Repubblica la C.N.T. è la sola  organizzazione operaia  rivoluzionaria attiva che   tenga una condotta coerente, malgrado la  secessione di un gruppo di riformisti, capitanati  da Pestana, che costituiscono il cosidetto "partito sindacalista". Nel maggio 1936, alla vigilia della rivoluzione, la C.N.T. raccoglie l'adesione dl settecentocinquantamila  lavoratori  spagnuoli. La sua forza è fondata soprattutto sul proletariato catalano. La sua   debolezza è  tuttavia costituita da fermenti ideologici disparati presenti nel suo seno, fermenti che variano dal federalismo all'anticlericalismo, e che fanno inclinare la C.N.T. verso combinazioni ibride con grupni politici estranei. Potremmo dire più brevemente che manca alla C.N.T. un forte movimento politico orientatore, cui essa sia di alimento e di complemento.
La F.A.I. doveva  rispondere a questo compito ma, sorta molto piu tardi della parallela organizzazione sindacale, si trovava quasi sempre o sommersa dall'elemento sindacale e sindacalista o ridotta a semplice doppione dell'apparato economico: ciò che aveva notevoli conseguenze sui piano dell'azione politica.
La U.G.T. (Unione Generale dei Lavoratori), collegata al partito socialista, era sorta formalmente molti anni prima della C.N.T. ma non aveva messo salde radici. Fondata la C.N.T.. il suo atteggiamento molte volte incerto e collaborazionista, aveva gravemente indebolito la sua influenza tra le masse operaie. Fu l'azione delle Asturie, dove l' U.G.T. aveva un certo credito, e quindi l'azione di luglio che portarono questa formazione a più alte   responsabilità  nella lotta del proletariato  spagnuolo.
Il P.S.U.C. era in Catalogna il partito comunista, anche se sotto la sigla di "partito socialista unificato di Catalogna" concentrava elementi comunisti e socialisti. La sua affermazione s'iniziò con le giornate di luglio. Negli anni precedenti i comunisti avevano rappresentato ben poca cosa nella vita politica spagnola.
Il P.O.U.M. (partito operaio di unificazione marxista) era la risultante della fusione di due gruppi d'opposizione  usciti dalla Terza Internazionale: il Blocco Operaio e Contadino di Maurin e la frazione  filo-troskista di Nin. Esso costitui  una formazione politica assai ridotta (30-40 mila membri nel momento di massima espansione) e si trovava in rapporti assai tesi col P.S.U.C.,  per ovvie ragioni.
Altri  gruppi  della   inistra borghese:  repubolicani, i radicali, i regionalisti catalani e baschi.   Il fronte reazionario contava  invece su due gruppi politici organizzati: da una parte i carlisti, fanatici clericali e fautori della tradizione monarchica nazionale, forti soprattutto nella Navarra e dall'altra i falangisti, appartenenti all'organizzazione fondata dal figlio di De  Rivera,  inclini alla instaurazione in Spagna di un regime nazi-fascista.
Queste forze tuttavia non avrebbero potuto realizzare un pronunciamento antirepubblicano se non fossero state mobilitate ed impiegate dalla congiura militare che alle Canarie con Franco, al Marocco con Yague, a  Siviglia con Quiepo   de  Llano,   a Pamplona con Mola, a Saragozza con Cabanellas e con altri generali e colonnelli nelle diverse "capitanerie" cospirava da tempo contro la Repubblica.E a sua volta nè monarcofascisti, nè i generali avrebbero prevalso se non avessero trovato nel gabinetto Quiroga passività e condiscendenza alle loro mene antirepubblicane.
Comunque tutti questi gruppi, dopo un periodo di crisi determinata dalla rivalità fra i vari capi del pronunciamento, vennero unificandosi, grazie alla'scomparsa di Sanjurio, di Mola, di Goded e grazie alla violenta eliminazione di altri competitori, sotto l'egida di Franco. Lo schieramento  franchista ebbe cosi dai vandeani "rèquetes" ai  nazifascisti,  un solo nome e si chiamò "Falange spagnuola tradizionalista e delle giunte d'offensiva nazional-sindacalista".

LA RIVOLUZIONE.

Il 19 luglio segna l'urto fra I due schieramenti che si sono venuti disponendo attorno alla sfinge dello Stato spagnuolo. Questo Stato resta, purtroppo, al di qua della barricata per una causa del tutto accidentale: perchè  sono stati i generali reazionari a prendere l'iniziativa per la rottura della legalità. Questa genesi della rivoluzione spagnuola ne determinerà non poco l'ulterIore svolgimento.
Mentre a Madrid, in seguito alle prime notizie del putsch, si scompongono e si ricompongono i  ministeri, nelle strade e nelle piazze di cento città  spagnuole il popolo lavoratore prende le armi e stronca l'azione dei militari.
A Madrid, a Barcellona, ad Alicante, a Valenza, a Malaga, a Bilbao, sulla corazzata "Jaime Primero", sull'incrociatore "Cervantes" e sulle altre  navi da guerra, nelle stesse caserme e piazzeforti  gli ufficiali ribelli vengono isolati ed abbattuti. Un  grande risultato e raggiunto già nel corso della prima settimana: su circa la metà del suolo spagnuolo, ivi compresa la capitale politica Madrid, e la capitale economica,  Barcellona, la controrivoluzione è vinta, la rivoluzione e vittoriosa per opera del popolo spagnuolo in armi. Non resta che sviluppare questo luminoso dato di fatto in profondità  ed in estensione verso i suoi logici obiettivi.In primo luogo verso la eliminazione radicale delle cauue che avevano determinato la minacciosa reazione fascista. cioe verso la trasformazione radicale della struttura sociale della Spagna liberata: in secondo luogo verso la liberazione dal fascismo dal resto della Spagna cioè verso la espansione delle conquiste rivoluzionarie realizzate nei territori liberi. Solo entro tale prospettiva, rivoluzione e guerra civile erano collegate da un nesso così stretto  da   renderne  impossibile  una  pericolosa separazione alternativa. Ma la rivoluzione in marcia non seppe afferrare intera questa prospettiva, esitò, tergiverso e fu  definitivamente bloccata e al fronte e nelle retrovie.
Non si possono comprendere i motivi del mancato raggiungimento di quegli  obiettivi rivoluzionari, senza `riferirsi al giudizio che abbiamo espresso all'inizo di questo paragrafo sullo sviluppo "autonomo" del movimento operaio in Spagna.
Poichè non si deve dimenticare che anche nel 1936 la rivoluzione spagnuola fu un avvenimento isolato, tutto proprio della Spagna, senza alcun diretto legame causale con la situazione generale europea. Diremo di più: soltanto  in Catalogna questo avvenimento trovò le condizioni favorevoli (carenza del potere statale centrale, vasto ed organizzato movimento di masse) per esorbitare dal piano dei ricorrenti pronunciamenti e contropronunciamenti,  per esaltare ai  massimo   grado le energie popolari in movimento.
E' in Catalogna che la lotta si estremizza, sia al fronte che nelle retrovie. Nelle retrovie si sradicano  i resti del regime borghese, si socializzano per iniziativa dei sindacati trasporti urbani ed interurbani, i servizi dell'acqua, gas, elettricità, i servizi sanitari, gran parte dell'industrie tessili e meccaniche.Si   procede altresi alla collettivizzazione di larghe plaghe agricole (e ciò avviene non solo in Catalogna, ma anche in Aragona e nel Levante). L'organo popolare di gestione economica è il Consiglio Generale dell'Economia: gli organismi attraverso i quali si esplica la gestione economica sono i sindacati nell'industria e le collettività nell'agricoltura. Al fronte la rivoluzione e altrettanto profonda E' in atto una prova di solidarietà internazionale documentata dall'afflusso di volontari da tutti i paesi d'Europa. E' in atto una prova di organizzazione democratica, federativa, libertaria dell'esercito combattente, costituita sulla base dl colonne di volontari. E' in atto soprattutto, per la prima volta, uno scontro diretto ed armato con i fascisti,  uno scontro in cui questi ultimi hanno la peggio (Guadalaiara).
Ma queste realizzazioni preoccupano le correnti moderate, opportuniste, antirivoluzionarie. Nella mente dei rappresentanti di queste correnti la Catalogna è una ossessione che deve essere dissipata. Per essi in Catalogna si deve smobilitare la rivoluzione, si deve restaurare la disciplina statale, si deve sciogliere il Comitato Generale delle Milizie ed il Consiglio Generale dell'Economia, le due vertebre della difesa popolare, si deve mettere fine alle socializzazioni ed alle collettivizzazioni, si deve introdurre la militarizzazione ed il fronte aragonese deve essere subordinato ad un comando unico, insindacabile e incontrollabile, posto al dl sopra della rivoluzione catalana. Pretesto a tutte queste misure: la guerra, lo stato di guerra, la necessità dl vincere la guerra.

LA   GUERRA.

Questo elemento, nuovo ma inevitabile, era venuto sovrapponendosi alla realtà rivoluzionaria, in Spagna. Irrigiditosi il fronte, le grandi potenze europee cominciavano a prendere posizione di fronte al fatto nuovo. La Germania e l'Italia appoggiavano la Spagna franchista con invio di materiali e di uomini: la Francia e l'Inghilterra legate alla politica della S.D.N. appoggiavano formalmente il governo legittimo, quello repubblicano. L'U.R.S.S. in un primo tempo restò spettatrice ed in un secondo tempo quando ebbe, tramite il partito comunista spagnuolo, sufficienti garanzie di contropartita, mise una sua ipoteca sul governo repubblicano.
La Spagna   divenne  cosi   al tempo  stesso   un campo sperimentale per le  schermaglie    della guerra imperialista in gestazione ed una moneta di scambio nelle trattative diplomatiche   fra le potenze   europee. La guerra civile spagnuola si tradusse  in  un  episodio  preliminare della più grande guerra europea. Questo elemento determinò il corso delle cose di Spagna: la guerra costituiva  l'aspetto obiettivo della controrivoluzione. Dal momento in cui il destino della Spagna fu sottratto alla volonta de] popolo spagnuolo  e sottoposto all'arbitrio  delle grandi potenze (che mascheravano le loro interferenze dietro la facciata del non-intervento) la rivoluzione non poteva più trionfare. Avrebbe vinto Franco che era l'ala estrema dello schieramento controrivoluzionario.

LA    CONTRORIVOLUZIONE.

Se l'elemento controrivoluzionario obiettivo era costituito dalla guerra, non mancavano coefficienti soggettivi nei quali quello si traduceva. Se la rivoluzione spagnuola era presa ormai nello sviluppo di forze antagonistiche esterne  non mancavano agenti interni nei quali quelle forze si riproducevano.
Potremmo dire che lo schieramento controrivoluzionario in Spagna aveva, in seguito all'involuzione più sopra identificata, un'ala destra nell'esercito di Franco, nei suoi reparti di marocchini  di camicie nere, di aviatori hitleriani, un centro nel governo di Madrid, facile a tutte le tolleranze ed a tutti i ricatti, un'ala sinistra nel partito comunista,  strumento   passivo nelle mani di Mosca, affiancato da una pletorica schiera di esperti, di diplomatici e di specialisti sovietici. La controrivoluzione si getta sulla Catalogna e la schiaccia. Il dramma si inizia con le giornate dl maggio del 1937, quando l'apparato comunista tenta di liquidare la difesa anarchica delle conquiste rivoluzionarie, e termina con l'internamento del miliziani spagnuoli nei campi di concentramento in Francia nel gennaio 1939.
Serrata in un processo storico che la negava a priori, la rivoluzione spagnuola muore dibattendosi in una serie di tragiche ccmtraddizioni. Basti pensare a tre fatti che oggi, a distanza di anni balzano in tutta la loro evidenza: a) il fatto che ad un certo momento la Spagna rivoluzionaria fosse costretta a chiedere, invece della generalizzazione della lotta contro tutti i governi borghesi d'Europa (obiettivamente impossibile), la pressione dei proletariati europei sui rispettivi governi per l'invio d armi: invio che presupponeva una collaborazione di classe nei paesi fornitori di armi, comportava una subordinazione della Spagna a questi paesi borghesi, e scatenava tante rivalità internazionali per l'influenze politiche in Spagna, da risultare tanto micidiale quanto l'invio di armi fasciste a Franco; b) il fatto che ad un certo momento la Spagna rivoluzionaria fosse sospinta ad augurarsi l'apertura del conflitto mondiale, detto "guerra antifascista",  per saldare il suo fronte a più robusti schieramenti militari: fino a condannare l'accordo di Monaco come un tradimento di qesta prospettiva e di questa aspettativa; c) il fatto che alla fine della guerra civile Madrid diventasse teatro di violente lotte intestine fra i contunisti, fautori di una inutile resistenza ad oltranza ed opposti gruppi di repubblicani ed anarchici i quali realisticamente constatavano l'inel'uttabilità di un avverso fato, contro il quale si erano pure eroicamente battuti per trentadue mesi.

IL MOVIMENTO ANARCHICO NELLA RIVOLUZIONE DI SPAGNA.

La rivoluzione di Spagna costituì per Il movimento anarchico uno storico banco di prova. Su questo banco di prova Il movimento anarchico spagnuolo affermò alcune incontestabili verità e distrusse altrettanti vecchi pregiudizi. In primo luogo il movimento anarchico in Spagna mostrò di essere l'espressione non già dell'artigianato precapitalistico o delle masse disgregate della campagna o del proletariato "straccione", come da tempo volevano far credere i suoi avversari ma mostrò di essere l'espressione delle masse operaie industriali della regione economicamente più progredita della penisola: la Catalogna. Il movimento anarchico, punta avanzata di queste masse operaie, fu capace di realizzare la saldatura fra il proletariato urbano della Catalogna ed il proletariato rurale dell'Aragona e del Levante.
In secondo luogo il movimento  anarchico in Spagna mostrò di non essere una piccola setta corrosa dal misticismo, ma una perfetta formazione d'avanguardia, capace di suscitare un grande movimento popolare, capace di raccogliere centinaia di migliaia di lavoratori intorno alla F.A.I.ed alla C.N.T.
In terzo luogo il movimento anarchico in Spagna mostrò di essere non già un corpo inerte od una forza dissolvente, come quei suoi critici da anni predicavano e predicevano, ma piuttosto il realizzatore primo delle conquiste rivoluzionarie: delle collettivizzazioni agricole, delle socializzazioni industriali, dei liberi comuni, dell'esercito popolare, della distruzione radicale del fascismo e dei suoi complici: il movimento anarchico fondò un mondo nuovo, una civiltà nuova in Spagna, cambiò il volto della terra di Spagna.
Questi i dati positivi. Dato negativo, quello della partecipazione dei "ministri" libertari al governo di concentrazione. Esistono in proposito delle giustificazioni più o meno discutibili. Rinunciamo a farle valere. A nostro giudizio la deviazione "ministerialista" non si può spiegare isolandola; la si può spiegare soltanto collegandola alla situazione nella quale si produsse. E collegata a questa situazione essa si spiega in prima istanza con la mancata risoluzione del problema dello Stato e della sua distruzione da parte del movimento anarchico  spagnuolo; in seconda ed ultima istanza essa si spiega con la impossibilità  pratica di risolvere tale problema nel caso spagnuolo, nel caso cioè di una rivoluzione circoscritta alla sola Spagna (e, potremmo dire alla sola Catalogna, dove esisteva una forza rivoluzionaria omogenea)  e soprattutto inscritta  nel cerchio di ferro di una controrivoluzione mondiale in atto.

10) Il movimento operaio e la seconda guerra mondiale dell'epoca imperialista.

Più lunga nel tempo, più estesa nello spazio, più violenta nel suo sviluppo la seconda guerra mondiale rappresenta, in confronto alla prima, anche una più grave sconfitta per la classe operaia di tutto il mondo.
Se nel corso della prima guerra mondiale si verificarono cedimenti e debolezze da parte di uomini ed anche di gruppi, se si registrarono sbandamenti e perplessità di fronte alla novità del fenomeno, il nerbo del movimento operaio europeo o non si piegò o si piegò, nolente e maledicente, sotto il pugno armato del potere costituito.
Nel corso della seconda guerra mondiale invece si deve constatare che non è il proletariato che trae dalla prima sofferta esperienza validi insegnamenti per far fronte alle suggestioni del bellicismo, ma sono piuttosto le classi dominanti che hanno meglio affilato le armi della propaganda ed hanno realizzato le condizioni ideali per una "guerra totalitaria moderna" quella di avere la classe soggetta, non solo ubbidiente ma docile, non solo serva, ma entusiasta e fanatica nella servitù.
In un primo tempo vediamo i lavoratori partire per il fronte da una parte ubriachi di retorica sullo "spazio vitale", sul "posto al sole", sulla più equa ripartizione dell'oro, delle materie prime, dei mercati - il tutto abbondantemente intriso di sciovinismo "antiplutocratico" e dall'altra con lo zaino affardellato di tutti i valori democratici-liberali-umanitari, magari antifascisti e socialpatriottici. In un secondo tempo la tragedia si fa più cupa: con l'intervento dell'URSS in guerra l'imperialismo mobilita e trincia le sue ultime riserve: di uomini e di ideali. Non solo altri milioni di uomini vengono impegnati nella guerra sul fronte orientale, non solo altri milioni di uomini vengono ingaggiati nelle organizzazioni della guerriglia irnperialista, non solo le ragioni del socialismo e perfino dell'internazionalismo proletario vengono inquadrate nella strategia della guerra ma soprattutto l'imperialismo mondiale riesce a premunirsi da ogni contraccolpo rivoluzionario post-beliico, trasformando ed esaurendo, nei paesi candidati alla sconfitta, la reazione popolare contro la guerra ed contro i propri governi responsabili, in nuova esca per il perdurante conflitto.
Soprattutto per questa ragione la seconda guerra mondiale costituisce una sconfitta per la classe lavoratrice: perchè questa classe dopo essere stata per un lungo periodo ed attraverso una sistematica opera di inganno predisposta alla guerra, senza un suo benchè minimo moto di ripulsa, dopo essere stata, senza una sua efficace resistenza, sospinta sui campi dl battaglia, non ha saputo nè potuto, a differenza del primo dopoguerra sviluppare un suo   ritorno offensivo ed infliggere un forte colpo all'organizzazione capitalistica in crisi.
L'assoluta mancanza di un  movimento politico che interpretasse gli interessi reali delle masse e che applicasse una linea parallela a questi interessi è la ragione principale di questa "deficienza". Basta dare un rapido sguardo all'atteggiamento tenuto dalle varie formazioni che riferivano, più o meno soggettivamente, la loro azione politica al movimento operaio, per convincersene
I partiti comunisti.-  Alla fine della guerra il Komintern non contava più su grandi forze organizzate: nei paesi mediterranei, balcanici, danubiani, mitteleurope e baltici I partiti comunisti si trovavano numericamente ridotti ai minimi termini o messi fuori legge; in Svizzera, nel Paesi Bassi, in Scandinavia, in Gran Bretagna e nelle Americhe essi, data anche la loro scarsa rilevanza, erano appena tollerati.
L'unico grande partito comunista superstite era, dopo quello russo, quello francese.Per questa ragione la storia del partito comunista francese, a prescindere dalle vicende dei partiti comunisti in Cina e nei paesi coloniali, diventa la Storia stessa della III Internazionale nell'ultimo periodo della sua esistenza.
Terminata la guerra civile in Spagna con la vittoria dei nazifrancofascisti (ed Hitler e Mussolini poterono salutare questo loro successo con l'invasione della Cecoslovacchia in marzo e con l'occupazione dell'Albania in Aprile), si apre la crisi polacca: la crisi della pace europea.
La Francia, al pari dell'Inghilterra e della Russia, è particolarmente interessata alla difesa dell'indipendenza polacca. Il partito comunista francese ha perciò a sua disposizione, in questo mornento, tutti gli ingredienti necessari per sparare una potente "salve" propagandistica: l'onore della Francia, la  tradizionale amicizia franco-russa  e franco-polacca, l'alt alle provocazioni hitlerlane, la salvaguardia della democrazia, della libertà, della dignità dell'uomo ecc. E rievocando Monaco può rinfacciare al governo francese e la vergognosa capitolazione e il patente misconoscimento del ruolo europeo dell'URSS che sarebbe stato di quella capitolazione una causa ed un complemento.
Per questa ragione nel mesi di maggio, di giugno, di luglio e di agosto 1939 la propaganda del partito comunista francese è propaganda di guerra: per il riarmo, per la difesa della patria, per le alleanze militari, per la "giusta" guerra democratica ed antifascista. Il partito comunista si prepara zelantemente a svolgere il suo ruolo di mediatore dei governi borghesi presso le masse proletarie, ruolo già coperto dalla spregiata socialdemocrazia nel corso della prima guerra imperialista.
Ma ecco che nell'agosto 1939 la stipulazione di un patto di non aggressione germano-sovietco sconvolge tutti i piani, tutte le manovre in atto, tutta la stessa organizzazione del partito comunista francese e dei gruppi comunisti dispersi per l'Europa.
I militanti già in casacca militare, stivati nelle tradotte per il fronte, non possono fare dietro-front, i quadri coscienti del partito non possono accompagnare il voltafaccia di Mosca con un analogo automatico voltafaccia, i compagni di base non possono capire, orientarsi, seguire una linea logica, che non sia quella del piu cieco conformismo. Questa volta il "tournant" di Mosca è micidiale per i partiti comunisti. Giusta la vecchia immagine, dopo la improvvisa sterzata, sul carro non restano che le guide del carro: la burocrazia di partito. Il resto è ribaltato fuori o cade sotto gli immediati provvedimenti eccezionali promossi dai governi "democratici".
La storiografia ufficiale quando imprende ad esaminare il patto di Mosca, in genere conclude da una parte individuando in essa il fattore condizionale che determinò Hitler alla guerra e dall'altra riconoscendo in esso la premessa indispensabile per la difesa dell'URSS dalla doppia congiura capitalista. La storiografia rivoluzionaria, che fa centro sugli interessi unitari del proletariato mondiale, non può  attardarsi in  queste considerazioni.
Per essa il patto russo-germanico comporta due gravissime conseguenze in rapporto alla lotta della classe lavoratrice: in primo luogo priva questa classe delle sue, pur avariate, organizzazioni politiche (i partiti comunisti) e le abbandona alla mercè dei gruppi dominanti, in secondo luogo favorisce nei paesi fascisti la propaganda tesa ad utilizzare il mito sovietico per l'ingaggio delle masse nella guerra (la guerra antiplutocratica consacrata ed avallata dalla collaborazione dell'Unione Sovietica, paese amico e dei lavoratori e dei loro padroni fascisti).
Così in Europa alla fine del 1939 non esistono più partiti comunisti. Non esistono più partiti comnunisti proprio nel momento in cui le condizioni sembrano favorire una ripresa delle parole d'ordine dell'internazionalismo operaio. Mosca infatti sembra indulgere ad una propaganda in questo senso con lo slogan "ni Londres ni Berlin", con la definizione del conflitto come "guerra imperialista", con le note ammirative per l'URSS "oasi di pace" (discorso Dimitrov nell'autunno 1939).
Ma questo genere di propaganda, frenato oltrechè dalla tema di irritare gli irascibili nazisti anche dalla sua intrinseca inconsistenza, non trovava alcun apparato realizzatore ed era privo di efficacia. In questa situazione la III Internazionale, finita come forza politica organizzata sta per finire anche come forza polemica di richiamo. Siamo ad uno storico passaggio: al sopravvento definitivo della ragion di stato sovietica sulla ragion di partito del Komintern.
Questo passaggio è segnato dall'invasione russa della Polonia (ed il proletariato polacco che corre verso occidente a battersi contro i tedeschi, se di razza polacca, o corre verso oriente a salutare i liberatori sovietici se di razza ucraina, è Il segno preciso di questo mutamento profondo). L'occupazione russa dl metà della Polonia, l'instau.razione di protettorati sovietici sui paesi balticie la loro successiva incorporazione, la guerra e la pace con annessioni con la Finlandia, l'occupazione della Bessarabia e della Bucovina settentrionale: ecco le tappe dell'espansione russa che si risolve anche in una nuova espansione dei partiti comunisti, innanzi depressi e stremati. Ma questa espansione non si produce sotto l'incentivo della lotta di classe od in seguito ad un più intenso impegno attivistico ma solo grazie all'ascesa del mito russo,  della potenza  russa sull'orizzonte mondiale.
I partiti comunisti  che risorgono sono partiti "di tipo nuovo": hanno completamente rotto con la vecchia politica della III Internazionale, in una  forma ancora più recisa di quanto non fosse avvenuto in occasione delle ricorrenti "svolte"   del perido prebellico.
L'inizio della guerra russo-tedesca e la grande alleanza anglo-russo--ameriana mette in movimenio questi partiti, assegna loro dei precisi obiettivi politici.
Guerre d'abord è ora il motto preferito: e di qui lo scatenamento dei rancori sciovinisti, di qui la collaborazione con tutti i gruppi politici anche dell'estrema destra reazionaria e militarista e perfino con le forze parafasciste come la monarchia in Italia, i degaullisti in  Francia, i circoli   lealisti in Romania, di qui  la collusione ed il compromesso con tutti gli elementi che si sganciavano via via dall'alleato tedesco, di qui il rinnegamento di tutte le pregiudiziali di classe e la loro sostituzione con nuove strane istanze che potevano essere ora l'insistente richiesta  dell'apertura di un  secondo fronte in Europa, ora l'aurea glorificazione dei "tre grandi" a convegno in Teheran od in Yalta. Ma, ripetiamo, l'aspetto più grave di questa nuova politica consisteva nel tentativo purtroppo fortunato, di distrarre e di disperdere l'azione disfattista delle masse, di vanificarne preventivamente ogni loro reazione contro la guerra e contro i suoi responsabili.
Le cosiddette "guerre di liberazione nazionale" condotte sotto le insegne dei vecchi regimi e la guerriglia partigiana, nella misura in cui fu svirtuata del suo significato popolare e manovrata sul piano della guerra imperialista, furono le forme tipiche di questa azione deformatrice e corruttrice.
Dove si produsse una violenta rottura con le destre come in Polonia (liquidazione della   vecchia classe dirigente) in Jugoslavia (lotta contro i cetnici di Mihailovic), in Grecia (marcia su Atene), ciò avvenne non per un genuino moto rivoluzionario, ma per una violentata esplicazione del moto popolare sul piano della strategia sovietica.
Nei paesi dell'Occidente invece i partiti comunisti non tardarono ad ostentare un atteggiamento che pretendeva accreditare una presunta autonomia da Mosca con barocche manifestazioni di legalismo democratico e di patriottismo nazionale.
Negli Stati Uniti questo indirizzo venne a tal punto esagerato dall'autorevole segretario del partito Eearl Browder (scioglimento del partito ecc.), che la mano di Mosca tramite il fido Thorez si fece ben presto sentire presente e pesante a ristabilire la compromessa situazione.
Nel paesi dell'Asia Orientale, a cominciare dalla Cina per finire all'Indocina ed alla Birmania, i partiti comunisti trovarono invece favorevoli condizioni non solo politiche ma potremmo dire storiche per lo sviluppo della loro politica nazionalcomunista ed il proletariato cinese, mancese, coreano, filippino, birmano, indocinese, indonesiano, malese è mobilitato per placare, a parole, la sua sete di terra di lavoro di pace e, nei fatti, per conquistare alla propria borghesia il diritto di succedere nel potere alle vecchie caste impotenti ed ai loro protettori stranieri.
I Partiti socialisti - Anche per i partiti socialisti si deve ripetere quanto già detto per i partiti  comunisti: alla vigilia della guerra l'unica grande organizzazione rimasta in piedi era quella francese alla cui ombra si erano raccolti esuli italiani, austriaci, tedeschi, spagnuoli, cecoslovacchi, polacchi, eccetera.
Il partito socialista francese, ormai ben integrato dopo il governo del "Fronte Popolare" nell'apparato nazionale del paese, era in grande maggioranza, pur nel limiti della sua tradizionale moderazione, per la guerra contro Hitler. La opposizione al governo radicale di Daladier era tutta determinata dalla debolezza che questo governo aveva mostrato nel corso della crisi di Monaco. Blum, Dormoy, Jouhaux e le altre figure più rappresentative insistevano infatti per una azione politica d'irrigidimento nei confronti delle pretese di Hitler, in altre parole per una politica di intervento a difesa della Polonia. E quando la guerra scoppiò il Partito Socialista ebbe suoi rappresentanti come ministri nel gabinetto di guerra.
Contro la guerra in sè, come prodotto della società capitalista. si ponevano invece alcune minoranze socialiste come la frazione che faceva capo a Marceau Pivert e le organizzazioni  giovanili del partito.
La stessa situazione si riproduceva in seno alla CGT dove la maggioranza era esplicitamente a favore della guerra mentre si pronunciavano contro alcune federazioni minoritarie.  influenzate dagli anarco - sindacalisti.
Nei partiti esuli particolarmente interessante la situazione nel partito socialista italiano, riunificato da alcuni anni, nel quale mentre la sinistra di Nenni era apertamente    interventista contro il blocco italo-tedesco, la destra di  Modigliani accarezzava cautamente le tradizionali velleità  neutraliste e pacifiste: in effetti esattamente l'inverso di quanto stava avvenendo nel partito socialista francese. In Inghilterra partito laburista e Trade-Union's sono per l'intervento: prima coalizzate con i conservatori contro il liberale Chamberlain, reo di essersi inteso con Hitler, queste forze si ritroveranno tutte unite nel primo gabinetto di guerra. Ed  Wiston Churchill sarà il loro arbitro. Anche in Inghilterra tuttavia gruppi di minoranza sono avversi alla politica bellicista: l'Indipendent Labaur Party, l'associazione  "Commonwealth", il Socialist Vanguard Group. Ma come vedremo la loro opposizione è non soltanto, tenue e fiacca, ma anche assai posticcia.
Le minoranze rivoluzionarie - I gruppi e le associazioni di opposizione alla  guerra che abbiamo  incontrato nel  corso della nostra breve  rassegna non hanno il loro posto sul fronte anti-imperialista: infatti, questi gruppi e queste associazioni, dopo alcune alte professioni di fedeltà agli ideali dl pace e di solidarietà internazionale, lentamente piegarono verso l'accettazione del conflitto come ineluttabile necessità  e si sforzarono di dar battaglia sul più facile terreno delle ragioni "sociali"  della guerra. Sebbene su questa strada i governi e le classi dominanti avessero tanto avanzato con lusinghe e con promesse e con tali "atlantiche libertà"  da scoraggiare qualsiasi concorrente, tuttavia il contributo di questi gruppi giunse opportuno per moralizzare e socializzare l'  "ineluttabile necessità" .
Altri esigui gruppi d'opposizione fermentavano tuttavia in Italia, in Francia, in Belgio, in Olanda, in Inghilterra  negli Stati Uniti d'America e nella stessa Germania: gruppi di anarchici e di marxisti  rivoluzionari.
Questi gruppi costituiranno per anni una sottile trama di opposizione reale e cosciente alla guerra imperialista: essi, pur con i loro fogli ciclostilati o con le loro irregolari pubblicazioni clandestine difesero e sostennero l'eresia disfattista ed antinazionale.
Sarà molto difficile fare la storia dl questi gruppi, della loro attività (che pur dette luogo a persecuzioni e repressioni sotto i regimi d'entrambi le  potenze belligeranti) ma, se questa storia sarà fatta, non si potrà che riconoscere come, in  questi  gruppi di anarchici e dl marxisti rivoluzionari, durante quegli anni trovarono sicuro asilo i Penati della rivoluzione operaia.
Per il resto il fatto che la opposizione più clamorosa alla guerra venisse proprio sostenuta da gruppi sia pur anomali della classe borghese (quaccheri, obiettori di coscienza, ecc.) era un ultimo grave sintomo della carenza del proletariato come classe in quella drammatica congiuntura storica.
Ciò nonostante non mancarono nel quadro della stessa guerra partigiana coraggiosi e consapevoli tentativi dl trasferire la lotta sul piano della guerra civile: in Italia, in Francia, nel Balcani. Realizzatori di questa estrema conversione a sinistra furono formazioni politiche orientate (anarchiche, comuniste non ancora imbrigliate nella disciplina di partito) oppure le stesse masse insofferenti di tanta ostinata perversione politica.