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 Contributo al dibattito sulle elezioni
 L’analisi della situazione politico-sociale nella quale  agiamo risente fortemente della competizione elettorale, costringendo non solo  il dibattito pubblico, ma anche gli approfondimenti più analitici, nel vicolo  stretto di due argini. Da un lato la scelta tra Berlusconi e Veltroni e  dall’altro la presunta necessità di dare risposte immediate ai tanti e vari  problemi che sembrano solo in questo periodo affastellarsi nell’agenda delle  forze politiche e crucciare i loro sonni. E’ del tutto evidente, perlomeno per  chi come noi è più attento alle tendenze profonde e reali dei processi  economici, politici, istituzionali e culturali della nostra società, che la  rappresentazione elettorale di contrapposizione tra le scelte in campo sia più  apparente che reale. Quello che si afferma non è tanto la specularità dei  programmi elettorali dei due maggiori schieramenti, di cui peraltro potremmo  con successo dimostrare ampie convergenze, o riconoscere che su alcuni elementi  vi sono approcci e sensibilità profondamente differenti. Così come più in  generale, allargando lo sguardo alle altre e tante forze politiche, poco ci  appassiona l’analisi dei programmi con l’elencazione più o meno condivisibile  dei desiderata.  Se un qualche interesse può avere questa campagna elettorale  è che essa viene ad agire come un elemento catalizzatore in un contesto  abbastanza confuso facendo sedimentare in maniera più netta i vari componenti.  Fuor di metafora la campagna elettorale e la nascita del partito democratico  chiude definitivamente con quello che residua della storia del partito  comunista italiano e con l’equivoco che gli epigoni di questa storia e di  questo partito potessero ancora rappresentare un ancoraggio con la storia della  lotta di emancipazione dei lavoratori. In molta parte della sinistra che ha  condiviso la parabola leninista-stalinista e post stalinista del partito  comunista, l’approdo liberaldemocratico di quella storia è vissuta come un  lutto e sono in molti che provano ad elaborare quel lutto non facendo i conti  fino in fondo con un processo che già conteneva i segni inequivocabili di una  subalternità alle logiche del profitto e con una concezione autoritaria che  anteponendo il partito alle persone ha prodotto una mistica dell’organizzazione  che stenta a morire anche negli approdi liberali di queste formazioni e che  continua a trovare nel sindacato ancora una vasta eco assegnando  all’organizzazione un valore in sé. Sintomatico in questo senso il dibattito  che si è aperto a sinistra sull’abbandono della falce e martello come simbolo  di identificazione politica.
 Dal nostro punto di vista, pur cogliendo le immense  difficoltà d’azione per chi come noi ritiene utile e necessario un profondo  cambiamento dei modelli produttivi e dei rapporti di produzione, con la  conseguente rimodulazione dei rapporti sociali, l’attuale situazione ci  consente di guardare al futuro operando una cesura con una tradizione di  sinistra che oramai è slegata da ogni riferimento alle condizioni di vita dei  lavoratori, o è ossificata nella tradizione leninista.
 In questo quadro per potersi orientare è necessario  sottrarsi alla morsa che offusca la mente della stretta contingenza elettorale  ed allargare lo sguardo e cogliere le tendenze di fondo che hanno modificato i  rapporti economici negli ultimi trenta anni e che hanno inciso negli stessi  rapporti giuridici portandoci di fatto al di fuori degli stessi argini e  riferimenti della costituzione del 1948.
 Questa analisi diventa fondamentale per capire dove vogliamo  andare ed anche il come è possibile procedere, per questo è necessario capire  qual è il punto di partenza di un ipotetico processo di cambiamento.  Ancora una volta il PD sgombra il campo da  possibili equivoci.  Il non aver  inserito tra i valori fondanti di questo partito la lezione della resistenza e  della lotta di liberazione dal fascismo, se non dopo le polemiche che ciò aveva  suscitato, è la constatazione di fatto che non solo quell’epoca è ormai  sorpassata, ma anche il frutto di quella stagione: la carta istitutiva della  repubblica. La costituzione non è più l’elemento centrale su cui ancora oggi si  regge l’Italia e ciò non solo per quello che riguarda la seconda parte degli  assetti istituzionali, ma anche e soprattutto in relazione agli elementi di  carattere generale che caratterizzano la prima parte, quella dei valori  fondanti che pur lontani dalle nostre sensibilità libertarie, recepiscono,  seppure mediandole nell’ambito di una società capitalista, le spinte della  lotta di emancipazione della classe lavoratrice. In questo senso vanno la  centralità del lavoro, la necessità di garantire condizioni di vita dignitose  per ogni cittadino, l’inserire la libera impresa all’interno del vincolo etico  del benessere generale.
 Valori fondanti che assegnavano allo Stato un ruolo di  intervento pubblico anche economico per garantire livelli di reddito e  strumento indispensabile per dare risposte agli insopprimibili diritti  soggettivi di ogni cittadino. Casa, salute, istruzione. La derivata di questa  impostazione è la negazione dell’autonomia dell’economia, assegnando alla  politica un ruolo attivo nell’indirizzo, nel controllo e nella gestione dei  processi economici.  In qualche misura  la legge fondamentale dello Stato dà veste giuridica alle teorie Keynesiane che  individuano l’ambito d’intervento pubblico in economia in funzione anticiclica.  La contemporanea presenza di un forte e organizzato movimento operaio fece sì  che questo connubio determinasse uno sviluppo impetuoso del capitalismo ed un  contemporaneo miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Questa  fase in Italia nasce, si sviluppa e declina lungo l’arco di anni che vanno dal  dopoguerra alla fine degli anni settanta. Questo ciclo economico e sociale  entra in crisi per tutta una serie di fattori sia oggettivi sia soggettivi, e  come spesso accade molti sono gli approcci analitici che prediligono l’uno o  l’altro aspetto, ma in questo nostro ragionamento quello ci interessa  sottolineare è il sostanziale mutamento dell’economia che sempre più dirotta la  valorizzazione del capitale, dall’investimento industriale alla speculazione  finanziaria, processo questo favorito dal fatto che la produzione reale dei  beni si sposta dall’occidente capitalistico sviluppato ai paesi terzi in via di  sviluppo, che consolidano un capitale industriale e una borghesia nazionale.  Questo passaggio che i più amano definire come globalizzazione, e che  rappresenta lo sviluppo naturale dell’imperialismo sottrae l’economia  capitalista ad ogni pur parziale e debole influenza dello Stato. La politica  abdica a qualsiasi ruolo di intervento nell’economia e consegna all’impresa il  ruolo di unico attore dello sviluppo e del benessere economico. La modernità,  il nuovo va oltre il compromesso Keynesiano, supera l’impianto costituzionale,  che perlomeno nell’aspirazione si proponeva di vincolare l’impresa all’etica, e  riporta indietro l’orologio della storia approdando alle virtuose capacità del  libero mercato come unico elemento di sviluppo progressivo della società.
 Questo è l’approdo al quale siamo arrivati e al quale ci  vogliono ricondurre, pur attraverso strade qua e là leggermente diverse, le due  maggiori forze che oggi si candidano alla guida del paese.
 Da questo approdo è necessario partire, avendo la  consapevolezza che il ciclo apertosi con la lotta di liberazione e che ha  trovato il punto più alto nel periodo a cavallo degli anni sessanta e settanta  è definitivamente chiuso e che nessuna ulteriore spinta propulsiva può venire  da quella esperienza.
 La prospettiva avvincente che abbiamo oggi è quella di  costruire un nuovo percorso di emancipazione che facendo tesoro della storia  non riprovi a riproporla. Deve esserci la consapevolezza che se certe  prospettive sono state sconfitte ciò non dipende solo dal fatto che il capitale  e il potere si sono dimostrati più forti soffocando ogni prospettiva di  trasformazione, ma anche perché spesso il cambiamento non ha saputo proporsi  come elemento vitale, ma si è mostrato come grigio riformismo, ribellismo  sterile o come brutale dirigismo.
   Aprile 2008Carmine Valente
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