|  | IL PUNTO Questa crisi, al cui gravoso costo sono  chiamati lavoratori, donne e nuove generazioni, al posto dei ceti dirigenti  economici, finanziari e politici, sta diventando uno strumento formidabile  nelle mani dei governi nazionali per ridurre e annullare qualsiasi forma di  conquiste sociali, diritti acquisiti, spazi di democrazia, conquistati dal  movimento operaio e i suoi alleati naturali, con oltre trenta anni di durissime  battaglie, lotte, morti.Cosa altro dobbiamo aspettare per unificare  le singole lotte settoriali, rispondere compatti, in un unico fronte a quello  che oramai è chiaro anche ai fanciulli?
 di Cristiano  Valente Abbiamo più volte ripetuto che i reali  motivi di questa crisi, in corso oramai da oltre cinque anni, non stanno certo nell’eccessiva  finanziarizzazione dell’economia, essa stessa in realtà effetto e non causa, ma  nel calo dei saggi di profitto e nell’impossibilità per una vastissima quantità  di merci e di capitali di valorizzarsi. Nonostante la nota ritrosia dei Centri  Studi padronali e degli economisti al servizio del pensiero dominante  nell’usare, seppur lontanamente, il linguaggio e le categorie di analisi  materialiste, hanno sentito più e più volte   lo stesso Amministratore Delegato della FIAT - Chrysler, Marchionne, nel  tentativo di giustificare la perdita esponenziale di vendite di autovetture con  marchi FIAT in Italia ed in Europa, parlare di sovrapproduzione di auto e  di  mercati europei oramai saturi.
 Chiaramente questa sovrapproduzione non  è certo causata dal fatto che i bisogni effettivi,  in questo caso di auto,  siano realmente saturi,  né che l’intera popolazione europea abbia  oramai soddisfatto e risolto la propria necessità alla mobilità con macchine  più sicure e meno inquinanti; tanto meno ciò è avvenuto in altri ambiti o mercati  merceologici, dalle tecnologie, alle derrate   alimentari,  all’edilizia  residenziale .
 Saturazione e sovrapproduzione di cui  parlano questi signori è in riferimento esclusivamente alle possibilità di  vendita e di acquisto da parte del mercato e non certo al soddisfacimento dei  bisogni effettivi delle popolazioni, viste le vistosissime diseguaglianze  economiche e la divaricazione sociale che questo sistema economico e politico  sottende e che questa ulteriore crisi   amplifica.
 Un’ipotetica ripresa non è neanche immaginabile; nonostante le  reiterate affermazioni  sulla “luce in  fondo al tunnel” del nostro Primo Ministro o di qualche altro ministro di  turno, le stesse previsioni di tutti i Centri Studi Europei, così come del  FMI,  affermano che anche il 2013  vedrà un PIL con il segno negativo.
 La stagnazione è ormai la prospettiva certa per il prossimo futuro.
 La Cancelliera tedesca, A. Merkel, si è sbilanciata addirittura  in una possibile previsione di ripresa non entro i prossimi cinque anni.
 Del resto molti altri periodi di crisi e stagnazione hanno già  caratterizzato la storia dell’Europa e dell’intero mondo cosi detto sviluppato.
 Quella che precedette la seconda guerra mondiale durò oltre  venti anni: dal 1918 al 1938.
 Il sempre più spesso, richiamato “New Deal”  non riuscì affatto a mettere in moto  l’intera economia americana né quella europea; solo la guerra, la sua intensa preparazione e soprattutto l’immensa  distruzione di capitale fisico e umano, riuscì a  risolvere i problemi lasciati inalterati dal primo conflitto mondiale del  1915, rimettere in sesto l’economia del paese e creare le condizioni per  l’espansione internazionale degli anni che vanno dal dopoguerra in poi (dal‘45  ai primi anni ’70);  quelli che la  letteratura e la stampa economica chiama i gloriosi trenta anni.
 Ma  oggi  l’ennesima crisi economica, che per  vastità  geografica e distruzione di  capitale previsto ed effettivo, giudicata da molti economisti ancora più grave  e gravida di conseguenze rispetto alla stessa crisi del ’29, ha totalmente  svelato l’eccezionalità e la contingenza di quel periodo di sviluppo economico.
 Nella realtà quel ciclo economico aveva interrotto la sua  dinamica espansiva già oltre trenta anni, appunto a fine dalla metà degli anni  ‘70 e da allora ad oggi  vi sono state  periodiche e successive crisi limitate in area geografiche all’interno di un  ciclo mondiale che ha visto percentuali di PIL in continuo declino per poi  calare rovinosamente a segni negativi a crisi  conclamata. (2007: crisi dei subprime negli USA).
 All’interno  di ogni ciclo le contraddizioni che portano alla crisi non vengono mai  superate definitivamente, ma si accumulano, si ripetono ogni volta, aggravate.
 E  ogni crisi è la forma con cui il capitale cerca di rinnovarsi e prolungare il suo  dominio.
 La  stessa crisi del 1929 era stata preceduta negli Stati Uniti e in buona parte  dell’Europa dalla crisi del 1921, del 1907, del 1893 e del 1873.
 Ecco  come, tragicamente simili alle cronache dei nostri giorni, nel lontanissimo  1874, in un periodo di crisi economica europea, anch’essa preannunciata da un  crack finanziario in Austria- Ungheria, Carlo Cafiero, internazionalista  italiano, nella sua corrispondenza descrive   la condizione operaia e le condizioni di disperazione umana in cui le  classi sociali  meno abbienti cadono  sospinte dalle crisi economiche:
 “…  A Genova i carpentieri della Società di Navigazione Rubattino si sono messi in  sciopero perché la loro giornata è stata portata da dieci a dodici ore, senza  il minimo aumento di salario…” (Bollettino  di corrispondenza della Federazione del Giura del 18/10/1874)
 E  ancora :
 “…la  miseria miete inesorabilmente le sue vittime: oggi è una povera donna che si  getta sotto un treno; ieri era un contadino che moriva di freddo e di fame; a  Milano tre operai si sono suicidati in un sol giorno; a Roma un operaio va a  cercar la fine dei suoi giorni nel Tevere …” (Bollettino di corrispondenza della Federazione del Giura del 6/12/1874)
 A  fronte delle ripetute crisi economiche il sistema economico dominante risponde  sempre con il peggioramento delle condizioni operaie, l’aumento dello  sfruttamento.
 La  coscienza delle “anime belle”, sempre pronte a dispensare atti di carità  e di misericordia, a stento si duole a fronte del suicidio di lavoratori che  perdono il lavoro, quasi fosse un meccanico e necessario effetto collaterale.
 Le motivazione addotte di  questa crisi economica e sociale, ripetute come un  mantra vanno dalla eccessiva voglia di   guadagni da parte di  imprenditori  cinici ed egoisti, alla avidità da parte di una classe padronale affatto  lungimirante, dedita alla speculazione ed al facile ed immediato guadagno.
 Oppure per l’esistenza di una borghesia “compradora”  diretta da governanti corrotti, collusi e  concussi.
 C’è chi addirittura, sfidando il ridicolo, seppur velatamente  rimanda alla ingordigia operaia restia a mollare livelli salariali e  diritti  conquistati in decenni di lotte  sindacali restia a comprendere gli inevitabili fenomeni della globalizzazione.
 Il tutto condito con un necessario ritorno alla sobrietà (ma di  chi??) e alla necessità di una sana iniezione di parsimonia e di austerità  generale.
 Tutte queste presunte cause e possibili rimedi rappresentano  grosso modo tutte le diverse e sciocche spiegazioni che quotidianamente  leggiamo sulla stampa e che ci propinano autorevoli professori, economisti,  giornalisti, opinionisti, prelati, sindacalisti, segretari di partito, più o  meno nuovi o in pectore.
 Niente di tutto questo. Il meccanismo  economico, pur nella sua complessità, risponde a “leggi” e aspetti  fondamentali, forse utili da riepilogare.
 Ciò che sta alla base di questo sistema  è  la “rapina”. Gli  uomini scambiano fra loro lavoro e ciò che pagano sul mercato è la quantità di  tempo-lavoro umano socialmente dato racchiuso in una qualsiasi merce. Ciò  che vale in un minerale è il tempo di lavoro socialmente dato, speso per  estrarlo, in un animale venduto al mercato, il tempo di lavoro socialmente  dato per allevarlo, portarlo al mattatoio, ucciderlo, eccetera.
 E’  per questo che l’aria,  pur essendo  indispensabile alla vita umana più di un qualsiasi altra cosa o merce e che  per essere consumata non ha bisogno di nessun lavoro, non vale nulla sul  mercato, non è vendibile, mentre una qualsiasi penna stilografica, di cui  sicuramente si può far anche a meno, lo è.
 Gli uomini dunque scambiano sul mercato il loro tempo  di lavoro socialmente dato racchiuso in ogni bene di consumo-merce e questo  forma il valore di scambio, quel valore dal quale trae vita il modo  capitalistico di produzione.
 A conferma di ciò, ancora una volta, ci viene un aiuto  insospettato da uno dei massimi organismi dello stesso  sistema economico e finanziario mondiale.
 La  Banca UBS  Svizzera, ogni due anni stila uno studio comparando su base globale il potere d’acquisto  in 73 città del mondo, utilizzando come misura di riferimento proprio quante  ore di lavoro sono necessarie, in ciascuna di queste città, per acquistare un  prodotto il più possibile unitario e avente la medesima qualità: un “Big  Mac” (il classico panino della catena   McDonalds).
 Da tale studio (dati 2009)  si evince che nella media globale un  lavoratore dipendente ha guadagnato quanto basta per permettersi un “Big  Mac” dopo 37 minuti di attività, un chilo di riso dopo 22 minuti e un chilo  di pane dopo 25 minuti di lavoro.
 E’ altrettanto significativo vedere nella classifica  definita che a fronte dei 13 minuti necessari a Londra ne occorrono 44 a  Pechino e 129 a Città del Messico. (1)
 Dunque  il profitto del capitalista si fonda sul fatto che egli paga all’operaio solo  una parte della sua giornata di lavoro, quella parte di lavoro in cui l’operaio  crea un valore necessario alla suo sostentamento, cioè il suo salario
 La  restante parte di tempo-lavoro racchiusa nella merce non pagata all’operaio,  di cui il capitalista si appropria gratuitamente, viene “rapinata” dal capitalista all’operaio.
 Un  pluslavoro appunto. Solo questo pluslavoro crea un plusvalore, da cui deriva il  profitto del capitalista.
 Il  capitalista per aumentare la produttività della sua fabbrica potenzia e compra  sempre maggiore macchinario. Ma se il capitalista è obbligato, per accrescere  la produzione, ad aumentare il numero e la potenza delle macchine (capitale  costante) e ridurre la proporzione fra lavoro vivo degli operai (capitale  variabile) e le macchine a favore di queste ultime, egli in definitiva si  approprierà di una quantità minore di pluslavoro e in ultima analisi di  profitto.
 In  altre parole più il modo capitalistico di produzione si sviluppa, più accresce  la sua capacità tecnologica (lavoro delle macchine), più il capitalista  dovrebbe guadagnare di meno.
 Anche  se a guadagnare meno, naturalmente, è il capitale complessivo internazionale  e non le singole imprese.
 E’  necessario ricordare, infatti,  che per  via della concorrenza la singola impresa non guadagna direttamente solo sul  pluslavoro dei propri operai, ma si appropria anche del plusvalore prodotto  dalle imprese più deboli del mercato internazionale.(vedi scheda a piè di  pagina) (2)
 Lo sviluppo capitalistico nel suo sistema di produzione e di scambio  ha insito ed ineluttabile  le sue  ricorrenti crisi e le sue disuguaglianze sociali. Tutto ciò non solo può ma deve accadere. L’aspetto di  questa ineluttabilità è facilmente riscontrabile nel “gigantismo” delle  fabbriche più competitive e ancor più forse facilmente riscontrabile nel  commercio con  l’aumento della grande  distribuzione a scapito della piccola e media.In base a questa legge,   per un’economia basata sul valore di scambio, non c’è alternativa; è  segnata a morte. Tuttavia essa non muore.
 Questo perché la  diminuzione del profitto complessivo può essere in parte controbilanciata da  altri fattori, a cominciare proprio dalla concentrazione dei capitali, processo mediante il quale i mezzi di produzione tendono a  essere controllati da pochi grandi capitalisti.
 A causa di tale  concentrazione, pur calando la proporzione del capitale variabile rispetto a  quello costante, un numero maggiore di lavoratori lavora per un singolo  capitalista: aumenta quindi la massa del plusvalore e questo fa sì che la massa  dei profitti aumenti contemporaneamente e nonostante la caduta del saggio di  profitto.
 Inoltre le rendite di  monopolio che si possono conseguire attraverso la concentrazione dei capitali  permettono il mantenimento di margini di profitto significativi.
 È appena il caso di  ricordare, a questo riguardo, che il processo di concentrazione dei capitali ha  fatto progressi da gigante negli ultimi decenni.
 Basti pensare che già nel  2000 il valore delle fusioni tra imprese a livello mondiale aveva raggiunto i  5.000 miliardi di dollari, un valore pari a 10 volte quello delle fusioni  transnazionali nel 1990.
 Si sono così formati dei  veri e propri colossi (a New York hanno creato anche un indice di borsa apposta  per loro: i “Global Titans” .
 Per avere un’idea delle  dimensioni di queste imprese basti pensare alla multinazionale petrolifera  Exxon Mobil: nel 2008 questa società ha realizzato oltre 45 miliardi di dollari  di profitti, pari grosso modo al Pil di 150 Stati messi assieme.
 In certi settori la  concentrazione è così avanzata da creare situazioni di semi-monopolio da parte  di una singola impresa: si è ad esempio calcolato che oltre l’80% dei computer  del mondo giri sui sistemi operativi della Microsoft.
 Ma la sola concentrazione  dei capitali non è sufficiente ad invalidare gli effetti della legge.
 Entrano in gioco altri  fattori di controtendenza, che frenano e contrastano l’efficacia della legge  generale, dandole il carattere di una semplice tendenza.
 Una delle altre cause più  importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profittoè  la compressione del salario al di sotto del suo valore.
 Abbiamo già detto che “il valore  della forza-lavoro”  è il “valore  dei mezzi di sussistenza necessari” per la conservazione del possessore  della forza-lavoro.
 Questo valore è però,  storicamente determinato: “il volume dei cosiddetti bisogni necessari”  come pure il modo di soddisfarli, è anch’esso un “prodotto della storia”,  dipende quindi in gran parte dal grado d’incivilimento di un paese e, fra  l’altro, anche ed essenzialmente dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini  e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei  lavoratori.
 Dunque la determinazione  del valore della forza-lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un  elemento storico e morale.
 Sotto questo profilo, è  indubbio che oggi in un paese a capitalismo avanzato il valore della  forza-lavoro (ossia l’insieme dei mezzi di sussistenza ritenuti socialmente accettabili)  è superiore a quello dell’Ottocento.
 Ma è altrettanto indubbio  che la riduzione dei salari avvenuta negli ultimi anni, in parallelo ai  processi di precarizzazione della forza-lavoro, collochi i salari attuali in  molti casi nettamente al di sottodel loro valore storico medio dei 2-3  decenni precedenti.
 Ciò è ancora più evidente  se si tiene conto non soltanto del salario diretto (il netto in busta paga), ma  anche della riduzione che hanno conosciuto le varie componenti del salario  indiretto (le prestazioni sociali) e differito (le pensioni), attraverso  l’aumento dei servizi pubblici, la generalizzata diminuzione della protezione  sociale, la privatizzazione dei sistemi pensionistici.
 Per avere un esempio  concreto di cosa significhi la compressione del salario al di sotto del suo  valore, si pensi ad un precario impiegato in un “call center”, che non  può permettersi un affitto e deve vivere presso i genitori.
 In questo caso il prezzo  che il capitalista paga per l’utilizzo della forza-lavoro è inferiore al prezzo  delle sue stesse
 condizioni di riproduzione.
 Per misurare la  compressione dei salari medi negli ultimi decenni, un buon punto di  osservazione è rappresentato dalla crescita della disuguaglianza sociale.
 Facciamo parlare le cifre,  a cominciare da quelle che riguardano gli Stati Uniti.
 Tra il 1973 e il 2002 i  redditi del 90% più povero della popolazione statunitense sono scesi del 9% in  termini reali.
 Quelli dell’1% più ricco  sono cresciuti del 101%, e quelli dello 0,1% più ricco addirittura del 227%.
 Risultato: nel 2005 il  reddito dopo le tasse del quinto più povero della popolazione era di 15.300  dollari annui, quello del quinto mediano di 50.200 dollari, mentre quello  dell’1% più ricco era superiore al milione di dollari.
 Negli anni tra il 1993 e il  2006 all’1% più ricco della popolazione americana è andata quasi la metà della  crescita del reddito complessivo (proporzione che cresce a tre quarti se si  considerano soltanto gli anni tra il 2002 e il 2006).
 Nel 2005, secondo dati  dell’US Census Bureau, organo del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti  d‘America, l’indice della disuguaglianza tra i redditi ha raggiunto il massimo  storico. Nel 2006 la quota di reddito che andava al 10% più ricco delle  famiglie americane era il 49,6% del totale, la quota più elevata dal 1917 in  poi.
 Nel 2007  l’1% più ricco della popolazione statunitense  si appropriava di circa il 16% del reddito nazionale (nel 1980 tale percentuale  era  dell’8%).
 La stessa divaricazione tra  i redditi si registra in Gran Bretagna, dove la tendenza si è accentuata dopo  l’andata al potere dei laburisti di Blair nel 1997: anche qui, secondo dati  governativi pubblicati nel maggio 2009, la forbice della disuguaglianza è la  più alta di sempre.
 Ma la riduzione della quota  del prodotto interno lordo che va ai salari e per contro la crescita della  quota destinata ai profitti, è una tendenza che investe tutti i paesi a  capitalismo maturo, come evidenziato da una ricerca della Banca dei Regolamenti  Internazionali del 2007 e come facilmente visibile nell’elaborazione grafica di  uno studio più recente della Voce.info   “la slavina dei redditi da lavoro”. (3)
 In Italia, ad esempio, come  si evince sempre dallo stesso studio della Voce.info i lavoratori hanno perso  11 punti percentuali di reddito, andati in maggiori profitti e rendite passando  dal 68% in media del periodo dal 1970 fino al 57% dalla seconda metà degli anni  novanta in poi. (4)
 La stessa Commissione  Europea nello studio Employment in Europe 2007 ha dovuto ammettere:
 “nella maggior parte dei  Paesi UE la quota distributiva del lavoro ha raggiunto un picco nella seconda  metà degli anni ’70 e nei primi anni ’80, successivamente riducendosi a livelli  inferiori a quelli antecedenti il primo shock petrolifero”.
 Infine, secondo una ricerca  dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i salari medi mondiali nel  1995-2007 sono rimasti al di sotto della crescita del PIL.
 Nella maggior parte dei  Paesi la quota del reddito andata ai salari è scesa ulteriormente nel 2001-2007  rispetto al periodo 1995-2000. Nell’intero periodo considerato essa è diminuita  rispetto ai profitti.
 Un’altra ulteriore  controtendenza alla riduzione dei saggi di profitto consiste nella riduzione  del valore dei mezzi di produzione.
 Infatti il processo  necessario per una accresciuta forza produttiva del lavoro, che determina  l’aumento dei macchinari (capitale costante), in rapporto a quello dei  lavoratori (capitale variabile) riduce il valore ed i prezzi delle stesse  macchine e tecnologie utilizzate.
 Ne consegue che in realtà  il mutamento in valore della proporzione tra capitale variabile e  capitale costante è nei fatti molto inferiore a quanto si potrebbe desumere  dall’aumento dell’entità materiale degli elementi (macchinari ecc.) che  compongono quest’ultimo.
 Altro aspetto ancora che  comporta una controtendenza è l’esistenza di una “sovrappopolazione  relativa”.
 Questo aspetto negli ultimi  anni si è manifestato in particolare sotto forma di pressione di un gigantesco  esercito industriale di riserva presente nei paesi emergenti: soprattutto in  Asia, ma anche nell’Europa dell’est.
 Questo ha comportato una  massiccia delocalizzazione di produzioni industriali verso i paesi di nuova  industrializzazione.
 In generale, l’accentuata  concorrenza di produzioni realizzate in paesi a minor costo della forza lavoro  (e, in misura molto minore, l’immigrazione di manodopera a basso costo) ha  esercitato una fortissima influenza calmieratrice sui salari dei Paesi  industrialmente più avanzati.
 Lo sviluppo del commercio  estero poi, le esportazioni, accresce il volume della produzione consentendo un  ampliamento di scala della produzione e quindi una riduzione dei suoi costi  unitari: questo rende più a buon mercato tanto gli elementi del capitale  costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale variabile (mezzi  di sussistenza necessari).
 In tal modo il commercio  estero agisce in modo favorevole all’aumento del saggio di profitto, per un  verso accrescendo il saggio del plusvalore (in quanto il valore della  forza-lavoro cala, e quindi una maggior parte della giornata lavorativa può  essere rappresentata da lavoro non pagato) e per un altro diminuendo il valore  del capitale costante (la qual cosa rallenta l’aumento della composizione  organica del capitale).
 In secondo luogo, la  superiorità tecnologica delle merci prodotte in un determinato paese può  consentire un sovrapprofitto nel fare concorrenza a merci prodotte altrove con  tecnologia meno avanzata.
 E’ questa la  famosa conquista di nuovi mercati e di maggior competitività delle nostre merci  che in coro, governo, testimoni e cultori di professione liberale, liberisti,  progressisti, riformisti e quant’altro raccomandano e auspicano tutti i giorni.
 In realtà non  è altro che appropriazione da parte dei capitalisti di super profitti o comunque  profitti più alti, come già abbiamo visto,   in settori dove esiste una composizione organica più bassa e dove vi è un maggiore sfruttamento del lavoro
 Ancora  più conveniente è per il capitale optare per investimenti diretti esteri  effettuati in paesi emergenti.
 E’  il caso eclatante FIAT che investe in Serbia, Brasile e Polonia, dove il costo  del lavoro è al disotto di oltre il 50% di quello italiano.
 Ma anche questa controtendenza ha un limite perché in questo  modo il capitale si universalizza e riduce le aree dove si può ottenere alti  tassi di profitto.
 I paesi  arretrati a loro volta industrializzati obbligano i paesi avanzati a un forte  aumento della composizione organica per sostenere la concorrenza.
 Inoltre negli ultimi  decenni l’ampliamento del commercio mondiale è certamente stato considerevole  innanzitutto in termini di estensione spaziale, si pensi cosa ha significato  l’apertura di mercati prima chiusi quali quelli dell’est europeo, tuttavia deve  essere considerato anche nel senso più generale di un ampliamento della sfera  del commercio, ossia di ciò che è commerciabile e può venir messo a profitto.
 Tra le concrete  contromisure alla caduta del saggio di profitto vi è stata infatti la messa a  profitto dei beni comuni, ossia di valori d’uso in precedenza gratuiti che si è  cercato e si cerca di trasformare in valori di scambio (si pensi alle risorse  idriche), e l’ampliamento di ciò che è coperto da brevetto (a questo riguardo  si spazia ormai dal genoma, a determinati tipi di piante, alla proprietà intellettuale).
 Da questo punto di vista,  negli ultimi decenni si è manifestata con prepotenza la tendenza alla  mercificazione di ogni ambito dell’esistenza da parte del capitale.Infine  l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè l’accrescimento del  plusvalore, soprattutto attraverso il prolungamento del tempo di lavoro  (plusvalore assoluto) e l’intensificazione del lavoro e l’aumento della  produttività del lavoro (plusvalore relativo).
 Questo fattore consente di  fare da contrappeso alla caduta del saggio di profitto aumentando la quota di  lavoro non pagato, ossia il saggio del plusvalore.
 È quanto è avvenuto negli  scorsi anni nei paesi a capitalismo avanzato.
 Un caso da manuale di  aumento del plusvalore assoluto è rappresentato dall’accordo integrativo della  contrattazione aziendale raggiunto in Germania nel 2004 fra la Siemens ed il  sindacato dei metalmeccanici IG-Metall, che prevedeva il prolungamento  dell’orario di lavoro settimanale da 35 a 40 ore a parità di retribuzione (in  cambio della conservazione di 2000 posti in due impianti produttivi, che  Siemens minacciava di delocalizzare in Ungheria); analoghi accordi furono poi  conclusi per la Volkswagen e la Daimler-Chrysler.
 Oggi sono stati raggiunti  accordi simili anche in Italia nel settore dei chimici e dei trasporti con  l’aumento dell’orario settimanale da 36 a 38 legando, nel settore ferroviario,  l’irrisorio aumento salariale comunque alla presenza effettiva, oppure nei  contratti dei meccanici con la richiesta dell’aumento delle ore straordinarie  richieste dall’azienda senza la preventiva contrattazione sindacale.
 Quanto all’aumento del  plusvalore relativo, ossia all’intensificazione del lavoro,  esso si verifica ogni qual volta  un’innovazione di processo aumenta la produttività del lavoro, ossia incrementa  la quantità di merci prodotte dalla medesima forza-lavoro in uno stesso  intervallo di tempo.
 Altro importante fattore di  controtendenza è l’aumento del capitale produttivo di interesse, la così detta  finanziarizzazione dell’economia.
 Questo fattore, consiste  nella destinazione di una parte crescente del capitale a capitale produttivo  d’interesse, ossia all’investimento in obbligazioni o azioni (più in generale,  in attività creditizie e finanziarie).
 L’importanza assunta da  questo fattore negli ultimi decenni è stata certamente notevolissima, ma  appunto come già dicevamo è essa stessa fenomeno e non causa ultima della  crisi.
 Si iniziano infatti a  liberalizzare i movimenti internazionali di capitale a partire proprio dagli  anni Ottanta.
 “nel 1980, il valore  complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo  equivalente al PIL mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a  livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets  rispetto al PIL, era del 356%”.
 E’ quello che si legge in  una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey.
 Negli Stati Uniti si  comincia a smantellare il sistema normativo che era stato costruito dopo la  crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni all’attività  bancaria (lo stesso avverrà in Europa negli anni Novanta).
 Molte  imprese hanno limitato l’aspetto produttivo, per incrementare flussi di rendita  parassitaria, giocando in Borsa e offrendo esse stesse servizi finanziari.
 La  General Motors e la General Electrics, negli anni novanta e nei primi anni  duemila, hanno realizzato dal 40% al 60% dei loro ricavi da operazioni  finanziarie gestite in proprio come: depositi e prestiti, finanziamenti ai  clienti per l’acquisto dei propri prodotti, carte di credito e assicurazioni  proposte attraverso apposite Divisioni delle Imprese che si sono comportate  come delle vere e proprie finanziarie.
 In  questo caso la correlazione tra un basso saggio del profitto e l’attività  finanziaria è palese e la strada della finanziarizzazione è diventata un  percorso obbligato, da percorrere sino in fondo, con l’illusione che i successi  finanziari ottenuti potessero continuare per sempre.
 Ma  così non è stato in quanto tutte queste controtendenze non eliminano il problema  fondamentale del sistema economico capitalistico , ma lo rimandano e ogni  volta:
 “il medesimo circolo vizioso verrebbe ripetuto con mezzi  di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza  produttiva più elevata” .
 Brevi riflessioni a margine Karl Marx, nella sua analisi sul sistema di produzione  capitalistico scrive ulteriormente: “Appena non si tratta più di ripartire i profitti ma di  suddividere le perdite, ciascuno cerca di ridurre il più possibile la propria  quota parte della perdita e di riversarla sulle spalle degli altri. La perdita  della classe nel suo insieme è inevitabile, ma quanto di essa ciascuno debba  sopportare, in quale misura debba assumersene una parte, diventa allora  questione di forza e di astuzia e la concorrenza si trasforma in una lotta fra  fratelli nemici», (5)
 In questo sintetico, ma significativo  passo c’è la capacità interpretativa di gran parte della nostra storia nazionale dal primo dopoguerra e  alla  vicenda che stiamo vivendo dal  1970 in poi sul piano internazionale: dallo scontro fra gli Stati Uniti, con  l’ex blocco sovietico, alla contesa economica con il Giappone degli anni ‘80,  allo scontro e alla formazione dell’attuale Unione Europea, alla realtà  economica e sociale odierna della Cina  e  dei nuovi paesi di recente industrializzazione come l’India ed il Brasile.
 Cosi come è altrettanto facile evincere da questo stesso  ragionamento la caducità e la pericolosità dei vecchi e nuovi nazionalismi  presenti drammaticamente in buona parte dei paesi Europei.
 Aumento del grado di sfruttamento e deprezzamento del capitale  sono dunque i due elementi essenziali per ogni espansione del modo  capitalistico di produzione e questa ulteriore espansione è l’unico modo per  uscire dalle crisi economiche proprie del capitalismo.
 La produzione capitalistica tende continuamente a superare questi  limiti immanenti, ma riesce a superarli unicamente con dei mezzi che la  pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e più alta.
 E questo perché la caduta del saggio del profitto può essere  ostacolata, ma non annullata.
 Il processo risulta oggettivo e il suo sviluppo avviene al di  fuori della volontà della stessa classe dirigente capitalista;  «senza che tutto ciò dipenda minimamente  dalla volontà del capitalista»,
 E questa un altrettanta importante riflessione poiché toglie  alla lotta di classe quel tanto di vizio soggettivo che ne ritarda l’esito e  ne allontana la risoluzione.
 Niente, infatti,  è stato fatto, nonostante tutto il  chiacchiericcio rispetto alla così detta cattiva finanza e niente è stato fatto  per ridurre i costi economici sulle classi meno abbienti.
 Anzi il maglio si è scagliato  proprio sulla parte più debole, iniziando dai pensionati e dai futuri  pensionandi per poi arrivare alle singole realtà lavorative ed occupazionali.
 Non  c’è bisogno di uomini nuovi, nuovi unti del signore, ne di dispensatori e  promotori di futuribili politiche redistributive, ma di nuovi rapporti di forza  favorevoli ai lavoratori, unico strumento capace di rompere e contrastare il  determinismo del sistema economico.
 In sostanza non dipende dalle singole volontà padronali, dalla  più o meno lungimiranza dei ceti dirigenti o dei governi periodicamente  preposti all’amministrazione pubblica, né tanto meno dal singolo lavoratore,  singolo dirigente politico o sindacale.
 Solo una nuova e convinta consapevolezza della transitorietà  dell’attuale sistema economico e sociale e la prospettiva di un mondo diverso e  migliore può rappresentare una buona bussola per definire oggi una prassi di  reale resistenza alla vera e propria guerra che si sta scatenando in tutto il  mondo contro i lavoratori e le nuove generazioni e in futuro di attacco e  sviluppo di maggiore diritti e completo soddisfacimento dei bisogni delle  classi meno abbienti.
 Per noi, tutto  questo è ancora la necessita e la ragionevolezza di una prospettiva sociale ed  umana comunista e libertaria.
 Note: (1) sito  www.ubs.com/research  (2)  Perequazione del saggio di profitto in saggio medio pl=  plusvalore   c= capitale costante  v= capitale variabileSpl=  pl/v          saggio di plusvalore o di sfruttamento
 Sp  = pl/c+v      saggio di profitto
 co  =c/v            composizione organica del  capitale
 Presupponiamo  un Spl= 100%
 Settore  A = alimentare     3000 c + 1000 v + 1000  pl
 Settore  B = tessile             4000 c + 1000 v +  1000 pl
 Settore  C = meccanico     5000 c + 1000 v + 1000  pl
 Singoli  Sp per i singoli settori merceologici Settore  A  Sp = 1000/4000 = 25%Settore  B  Sp = 1000/5000 = 20%
 Settore  C  Sp = 1000/6000 = 16,6 %
 Sp  complessivo dei 3 settori3000/15000  = 20%
 Nella  realtà del mercato per i tre settori avremo: Settore  A  3000 + 1000 + 800 = 4800 dove  800 è il saggio medio di profitto e 4800 il prezzo di produzione, cioè la somma  del prezzo di costo della merce (c +v ) più   il saggio di profitto medio
 Settore  B 4000 + 1000 + 1000 = 6000 dove  1000 è il saggio medio di profitto e 6000 prezzo di produzione,  cioè la somma del prezzo di costo della merce  (c +v ) più  il saggio di profitto medio
 Settore  C 5000 + 1000 + 1200 = 7200 dove  1200 è il saggio medio di profitto e 7200 prezzo di produzione,  cioè la somma del prezzo di costo della merce  (c +v ) più  il saggio di profitto medio
 Come  si vede tale processo determina uno spostamento di pl (plusvalore) dalle  aziende più piccole a quelle maggiormente produttive con una maggiore  composizione organica di capitale (co), sviluppando e favorendo la  concentrazione di capitale.    (3) )  Lavoce.info –Articoli- Lavoro –La slavina dei  redditi da lavoro  Quota salari sul Pil in alcuni paesi avanzati (1970-2010)
  Fonte: Propria  elaborazione su dati Ocse.
  (4)  Lavoce.info –Articoli- Lavoro –La slavina dei  redditi da lavoro Quota dei redditi da lavoro dipendente sul Pil in Italia 
  Fonte: propria elaborazione su dati della contabilità nazionale  Istat.
 (5)  IL CAPITALE -  LIBRO III. Capitolo 15 : Sviluppo delle  contraddizioni intrinseche della legge.  novembre 2012  |