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IL PUNTO

In riferimento al governo “Monti” bisognerebbe riflettere sul concetto di “autonomizzazione” invece di invocare infantilmente il golpe.

Giulio Angeli


                La democrazia borghese non è l’unica forma con cui la borghesia si appresta a esercitare la propria egemonia sulla società, né la democrazia borghese può ritenersi una sovrastruttura politica definita una volta per tutte e, soprattutto, non è destinata a durare nel tempo. D’altronde la storia dimostra che alcune delle dittature più efferate sono state partorite proprio dal sistema parlamentare. Questo non per indugiare in semplicistici paragoni con la storia passata del regime mussoliniano, ma per sottolineare che la borghesia, in una fase di crisi acuta, volentieri delega il potere politico a una forma in grado di esercitare una qualche discontinuità con le ordinarie transizioni  democratiche. In altre fasi storiche questo indugiare produsse il fascismo, oggi produce un patto neocorporativo  di tutte le forze a difesa della nazione.  Ciò che deve allarmare non è “il governo delle banche” che sia detto in tutta franchezza non costituisce certo una novità nel panorama italiano, ma il fatto che la borghesia sia disponibile a delegare la difesa dei propri interessi a un patto sociale corporativo che riscuote il consenso, pare, dell’84% della popolazione. Per completezza, non dovranno quindi essere sottovalutati i legami diretti con il capitale finanziario per altro enormemente accresciuti, che questo governo porta con se: il fatto che tra nomine e interessi non vi sia mediazione esprime la debolezza del sistema parlamentare che pure esso si affida alla formula abusata “del governo tecnico” al fine di realizzare quelle controriforme reazionarie che la BCE ci ha ordinato di eseguire.  Nell’epoca dell’imperialismo i limiti della democrazia borghese si assottigliano proprio in quei paesi là dove essa è stata concepita: l’accresciuta concorrenza internazionale necessita di forme decisionistiche verticali che non consentono mediazioni con gli elementi d’ingombro costituiti dalle organizzazioni sindacali che continuano a difendere gli interessi dei lavoratori anteponendo, in forme magari poco energiche e compromissorie, i diritti del lavoro e del non lavoro, agli interessi di profitto del capitale. Altra esigenza prioritaria del capitale europeo è la flessibilizzazione della forza lavoro, sempre più considerata come merce di scambio sui mercati , alla stregua delle  altre merci inerti, così come l’egemone tendenza Marchionne insegna.
                Da questo punto di vista la sostanziale apertura di credito che la CGIL ha realizzato nei confronti del governo Monti segna una pericolosa discontinuità con la linea di opposizione fin qua perseguita: una linea, lo abbiamo già detto, non energica e caratterizzata da punti di caduta, ultimo dei quali l’accordo del 28 di giugno us, che segnano la debolezza del suo gruppo dirigente, una debolezza sottolineata dai legami stretti con interi settori moderati del Partito Democratico che premono per il riallineamento della CGIL con la deriva neocorporativa già intrapresa da CISL e UIL  che, a ragione, ha anticipato l’essenza del governo Monti.
Sono al riguardo indicative le dichiarazioni dei segretari confederali:
Bonanni: “Pronti ad un confronto senza pregiudiziali per trovare le soluzioni più eque”
Angeletti: “Monti deve sfruttare bene il consenso”
Camusso, “Al governo chiediamo equità e discontinuità con le vecchie politiche”
                Potremmo anche definirle dichiarazioni di intenti dettate dall’oggettivo pragmatismo sindacale ma, in una situazione che vede CISL e UIL  storicamente subalterne agli interessi della nazione ai quali, volentieri, si sacrificano quelli del lavoro, e una CGIL risucchiata dalle precedenti avventure concertative che tanti danni hanno prodotto alla capacità di resistenza del movimento sindacale, non si è in presenza di tentativi legittimati dalle difficoltà della fase, ma di vera e propria deriva.
                Per la prima volta dopo dieci anni di opposizione sia pure, lo ripetiamo, caratterizzata da numerose discontinuità che dimostravano, lo abbiamo sempre sostenuto, la persistenza dell’antica identità concertativa, la CGIL si appresta a un riallineamento con la dilagante tendenza corporativa.  
                Consapevole della propria debolezza il nuovo blocco sociale borghese, così come è sopravvissuto alla sorte del governo Berlusconi che pure aveva sostenuto in alcune delle sue fondamentali componenti,  tenta di riallinearsi sugli orizzonti dettati dalla BCE, coinvolgendo per intero le forme politiche e sindacali che volentieri delegano a un esecutivo “tecnico” tutte quelle dolorose manovre che potrebbero compromettere i loro livelli di tenuta elettorale o di rappresentanza.
                I richiami al senso di responsabilità profusi a piene mani da tutti gli schieramenti parlamentari e condivisi dalle forze sindacali confederali, suonano come ricatto non tanto per gli espedienti della lega, concretatesi in una strumentale opposizione motivata dalla perdita di consensi,  quanto per quella che potrebbe essere l’opposizione sociale, ma anche solo civile, a un governo espressione delle volontà del capitale finanziario europeo. Gli scenari parlamentari si dimostrano sempre più effimeri, portatori come sono di un modello decisionale vetusto e usurato dal procedere della ristrutturazione capitalistica che affina nel braciere della crisi i nuovi modelli di una democrazia autoritaria e corporativa.

novembre 2011