| IL PUNTO I contributi firmati non rispecchiano necessariamente l'intero gruppo redazionale ” le masse operaie, per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza,  mancano di mezzi di sussistenza” *  In un nostro articolo scritto prima del G8 di Genova del luglio 2001  quando le sorti progressive del capitalismo sembravano non avere confini e  quando si coniarono, anche in settori della sinistra radicale, nuovi lemmi come “turbocapitalismo”, per rappresentare  l’egemonia culturale imprenditoriale rispetto agli orizzonti solidaristici ed  egualitari dei sindacati e dei partititi che continuavano ad ispirarsi alla  tradizione ed alla storia del movimento operaio, scrivevamo:“ il conflitto  fondamentale tra capitale e lavoro nella cosiddetta globalizzazione non solo  rimane, ma è l’elemento essenziale su cui tutto il processo si basa. Lo  sviluppo internazionale dei mercati è proprio uno dei dati caratteristici del  capitalismo per rispondere alle sue crisi di profitto intrinseche. Nessuna  svolta epocale, nessuna guerra tra un Nord ricco ed un Sud povero, ma un  aumento delle contraddizioni tipiche di tutti i mercati capitalistici con zone  sviluppate e zone sottosviluppate adibite per di più a serbatoio di mano  d’opera a basso costo e con un aumento delle sacche di miseria crescente e di  marginalizzazione che si determinano sempre più anche in quei settori lavorativi  e sociali, per lo più nei paesi capitalisticamente più sviluppati, prima  garantiti”
 A distanza di solo otto anni il  carattere mondiale e strutturale di questa crisi, conclamata simbolicamente con  il fallimento della banca americana Lehman e Brothers, la più grande banca del  mondo, dimostra i limiti storici del sistema capitalistico nonché la sua natura  inevitabilmente caotica e distruttiva.
 I governi dei paesi capitalisti dispensano deliberatamente la  falsa percezione che la crisi attuale abbia origine nella sfera finanziaria, poiché  temono che in caso contrario la natura stessa del sistema economico venga messa  in discussione.
 Una più rigorosa regolamentazione delle operazioni finanziarie  sarebbe sufficiente per consentire al capitalismo di effettuare una nuova  partenza e continuare come prima.
 Nella realtà, ad un anno esatto dal fallimento della Lehman, le  autorità statunitense hanno commissariato e chiuso un’altra banca, la Corus Bank, la  novantesima banca a fallire nel 2009, e “un  anno dopo il collasso di Lehman Brather la sorpresa non è quanto sia cambiato il sistema finanziario, ma  quanto poco lo sia”
 Scrive così, non un giornaletto vetero comunista, ma il New York  Times del 11 settembre 2009.
 Un anno dopo i governi non sono riusciti nemmeno a mettersi  d’accordo su un tetto agli stipendi dei banchieri e le banche garantite dagli Stati  hanno ripreso a guadagnare sulla speculazione cioè scambiando ancora i famosi “derivati”.
 Dall’ottobre 2008 sono stati azzerati solo 25.000 miliardi di  dollari, meno di un ventesimo rispetto alla sola massa di derivati che si stima  esistano in circolazione. (550.000 miliardi di dollari)
 La caduta della produzione a cui stiamo assistendo viene  presentata come una conseguenza dei problemi nel mondo finanziario, che potrebbe  essere risolta con il ripristino della fiducia dei consumatori e degli  investitori.
 Da qui lo stucchevole e ripetitivo ritornello dei nostri  governanti sulla fiducia e sul richiamo alla non contrazione dei consumi, a non  cambiare stile di vita.
 Niente di più menzognero e soprattutto irrealizzabile.
 Questa crisi è una classica crisi di sovrapproduzione.
 La sua causa reale e ultima è la limitazione di consumo delle  masse lavorative in contrasto con la tendenza della produzione capitalista a  sviluppare le forze produttive ad un grado sempre più elevato e non in armonia  con i bisogni reali della società.
 Ce lo conferma e spiega, suo malgrado, la presidentessa di  Confindustria, la quale afferma:
 “La ricetta per uscire bene  dalla crisi è fatta di grandi ristrutturazioni, riconversioni e cambiamenti  nelle politiche degli imprenditori Il recupero degli investimenti sarà modesto:  nel 2010 cresceranno solo dell’1,5%. D’altra parte i bassi livelli  produttivi, i bassi consumi e la grande capacità produttiva inutilizzata (la  sottolineatura é nostra) non invitano a  fare nuovi investimenti, soprattutto se la ripresa della produttività sarà  ottenuta attraverso esuberi di massa”
 La proprietà privata dei mezzi di produzione e la costante ricerca  del massimo profitto è in contraddizione con il carattere sociale della  produzione.
 Ciò comporta lo sviluppo caotico della produzione ed il  manifestarsi delle crisi cicliche.
 Poiché ogni gruppo o impresa capitalista ha l’unico scopo di  acquisire per se i mercati di altri, si è sempre orientata verso un maggior  sfruttamento dei lavoratori a produrre di più velocemente e a costi inferiori.
 Ciò si traduce in una crescente contraddizione tra lo sviluppo  della capacità produttiva da un lato e la relativa diminuzione del potere di  acquisto delle masse dall’altro.
 Il capitalismo è riuscito procurarsi nuovi mercati privatizzando  il settore pubblico ed imponendo il libero scambio ai paesi in via di sviluppo.
 Ha globalizzato l’economia, in particolare nei mercati finanziari.
 E’ riuscito a creare temporaneamente una domanda artificiale  mediante lo sviluppo del credito e della speculazione.
 La completa liberalizzazione dei  flussi di capitale, degli attori finanziari e dei derivati hanno creato  un’enorme massa di ciò che già Marx chiamò “capitale  fittizio” alla costante ricerca di un ritorno usurario.
 Per i capitali in cerca di  investimenti redditizi si è trattato di una gradita via di fuga perché la crisi  di sovrapproduzione è sempre accompagnata da un eccesso di accumulazione.
 Non vi è per nulla mancanza di capitali, bensì un eccesso di  capitali che non è in grado di trovare uno sbocco nel settore produttivo, non è  quindi in grado di acquisire un profitto sufficiente per l’accumulazione.
 Per il capitalismo, mai è fondamentale il reale bisogno delle  masse, i bisogni sociali delle comunità, il soddisfacimento armonico dei valori  d’uso, l’unico riferimento è il massimo profitto ottenibile.
 Se anche la millesima parte del capitale fittizio (esclusivamente  circolante) si convertisse per miracolo in capitale reale (produttore di  valore) il mondo esploderebbe, ricoperto di merci invendute.
 E’ talmente contraddittoria e bloccata la situazione che le  banche, per definizione erogatrici di denaro
 essendo congelato il mercato interbancario stanno addirittura  obbligando i loro clienti a rientrare dai fidi, cioè stanno chiedendo loro  denaro anziché fornirlo.
 E questo vale in particolar modo per quei settori e ceti di  piccola borghesia sempre più depauperata e sull’orlo della proletarizzazione  (commercianti, artigiani, piccoli imprenditori)
 I disgraziati che non possono pagare i mutui e quelli che  accumulano debiti sulle carte di credito sono già precipitati nella miseria  perché si produce troppo, non troppo poco.
 Dopo aver completamente liberalizzato i mercati finanziari e dopo  aver sostenuto la mano invisibile del mercato sino all’ultimo si è invocato lo  Stato per il salvataggio ed il pagamento del conto.
 Negli USA lo Stato ha acquistato  direttamente obbligazioni emesse dall’industrie per le esigenze immediate di  finanziamento.
 Nella U.E. l’aperto aiuto statale alle singole industrie non è  permesso, ma come abbiamo visto si è prontamente ricorso ad un aiuto indiretto  come gli incentivi alla rottamazione delle auto fornito da tutti i paesi  europei alle proprie case automobilistiche livellando le condizioni  internazionali.
 Si tratta di una statalizzazione che farebbe vergognare perfino un  vecchio stalinista.
 Tale operazione richiederà uno sfruttamento inaudito dei proletari  per estrarre la mostruosa quantità di plusvalore necessario ad evitare il  crollo.
 E la misura non è affatto colma.
 Ora cominciano a saltare le carte di credito dove dietro non c’è  alcun valore da ipotecare (casa, macchina) Uno scoperto totale.
 Questa crisi dimostra anche l’inconsistenza di molte tesi ancora presenti  nel variegato movimento antiglobalizzazione secondo cui la funzione degli Stati  nazionali sia ormai superata dalla politica delle grandi imprese dette  transnazionali, cioè controllate da proprietari e dirigenti che non hanno più  una collocazione e ambito geografico socio-politico definito, oppure che gli  Stati non hanno più alcun ruolo da svolgere, avendo rinunciato volontariamente  al loro potere d’intervento per concedere la piena libertà ai capitali.
 In realtà, le vicende della G.M e della Chrysler americane e della  FIAT italiana, testimoniano un ruolo  tutt’altro che marginale dello stato.   Le recenti vicissitudini legate proprio a queste ultime due case  automobilistiche ed al loro matrimonio il quale ha avuto in maniera esplicita  l’avallo del Congresso USA e dello  stesso presidente Obama, è palesemente sotto gli occhi di tutti.
 Viene lecito domandarsi che se così fosse perché accanirsi contro  8 governi nazionali in via di superamento?
 Ma l’attuale crisi internazionale distrugge anche un altro mito  socialdemocratico, oggi presente ancora nella versione centrista e democratica  di tali formazioni, (facciamo qui riferimento esplicito al vecchio PCI/PDS/DS  oggi semplicemente democratici) per cui vi è da un lato un capitale sano e  produttivo e dall’altro il capitale finanziario parassitario ed esclusivamente  speculativo.
 Non esiste alcuna dicotomia fra finanza e economia reale.
 L’intreccio del capitale bancario, assicurativo con quello  industriale è indissolubile. Sono gli stessi attori che giocano più parti.
 Nel 2008 i profitti delle maggiori aziende quotate a Wall Street fra  cui la stessa G.M. derivavano per oltre il 30% da attività finanziarie.
 Ma alla favola dell’economia finanziaria cattiva e di quella reale  buona si affianca tutt’oggi il ritornello della difesa del libero scambio e del  libero mercato nonostante che ogni Stato abbia garantito e sostenuto la propria  borghesia nazionale.
 Chi parla di protezionismo è indicato al pubblico ludibrio, ma nella  realtà ogni Stato tramite politiche protezionistiche e attraverso alti dazi  doganali cerca di proteggere le produzioni nazionali.
 E’ di questi ultimissimi giorni lo scontro commerciale tra gli USA e la Cina. Dal  26 settembre p.v. su l’import di pneumatici di fabbricazione cinese graverà  negli USA una tariffa doganale del  35%.
 La   Cina  per il momento ha avviato un’inchiesta antidumping sui prodotti aviari e su i  componenti automobilistici USA. Un  volume di affari che si aggira sui 2 miliardi di dollari.
 Tale contenzioso può essere di traino per vecchie diatribe mai  sopite come l’acciaio ed il tessile.
 Le attuali nazionalizzazioni comunque mascherate servono a  tutelare gli interessi del grande capitale mediante fondi statali, in modo da  restituire a queste imprese la salute finanziaria in vista di una loro  riconsegna al settore privato.
 Tutto questo si tradurrà in una maggiore concentrazione dei  capitali ed in un’ulteriore contrazione di manodopera. Cioè maggiore  disoccupazione.
 Non fu il new deal a salvare il capitalismo dalla stagnazione, ma  la seconda guerra mondiale che permise data l’immane distruzione di cose ed  uomini, cioè capitale, di imboccare per un trentennio circa quella che ancora gli  economisti chiamano l’età d’oro del capitalismo con alti saggi di profitto e  migliori condizioni salariali e sociali per il proletariato europeo.
 Non si tratta di baloccarsi quindi con posizioni neokenesiane o di  controllo statale, ma di rivendicare quella quota di plusvalore che in questi  ultimi 30 anni è passata dai salari ai profitti.
 Si tratta di invertire quella proporzione 40/60 (60 a favore della rendita e  dei profitti e 40 al monte salari) a favore dei lavoratori.
 Lo si può fare solo ed unicamente puntando al conflitto aspro e  generalizzato con l’obiettivo finale della ricomposizione della classe operaia  e dei suoi naturali alleati come i giovani, le donne ed i settori medi della  società.
 Non ci stancheremo mai di dirlo. Occorre vincere una battaglia  fondamentale.
 Si guardi come e cosa ha suscitato la battaglia della Innse, seppure  battaglia limitata e in definitiva di retroguardia, avendo semplicemente vinto  con l’ingresso di un altro padrone al posto di quello vecchio.
 Se il salario è il terreno fondamentale di omogeneità fra tutte le  categorie e per la crisi in atto in alcuni settori è complicato scioperare, si  usi tutta l’intelligenza e la tattica che il movimento operaio storicamente ha  messo in campo.
 Si usi, per esempio, i lavoratori pubblici per difendere quelli privati.  Si chiami alla solidarietà di classe.
 Nei settori produttivi di nicchia e che ancora tirano si usi  questi lavoratori per conquistare maggiori garanzie e spazi di contrattazione  salariale e normative avanzate.
 Si chiami tutti i precari su un unico e chiaro obiettivo.  Passaggio a tempo indeterminato.
 Le disponibilità e la fantasia ci sono. Lo dimostrano in questi giorni  i movimenti dei precari della scuola.
 Che si inizi realmente un autunno all’insegna delle lotte.
 Valente Cristiano15/09/2009
 Note: * F.Engels - Anti-  dhuring  
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